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MONGOLIA: Mondo nomade (2000) di Francesca Chiolerio 

 

Nella steppa ogni stelo d’erba si piega sotto il peso del cielo. Nella steppa è tutto piatto per lasciare più spazio al grande cielo. Nella steppa ogni uomo si porta il cielo sulle spalle. (Anton Quintana)

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Mongolia

E' difficile ed affascinante al contempo, la Mongolia... Mondo nomade, vuoto apparente, paese di tende, di mandrie e di greggi. Territorio d'amore, mare di giada, orizzonti infiniti, odore di latte, giochi di lotta, cavalli dorati, cammelli, gazzelle a migliaia; aquile, marmotte, citelli e cigni; steppa e praterie, polvere e pantani. Una corsa in una pianura diventata mare, nella solitudine… è libertà. Un mese come un giorno, brevissimo! E già davanti agli occhi le nuove immagini scorrono come in un film, impossibile fermarle...

 

La Mongolia è compresa fra la Russia al Nord e la Cina che la tocca in ogni altra sua parte. Grande tre volte la Francia, ha un’altitudine media di 1580 metri. E’ un paese arido e povero di corsi d'acqua ma con una grande varietà di ecosistemi naturali diversi fra loro per clima, flora, fauna, paesaggio e terreno: si passa dall’alta montagna alla taiga, dalla foresta alla steppa, al deserto. Quasi un terzo del paese, al Sud, è occupato dal Deserto dei Gobi. 

Marco Polo lo attraversò già nel 1275 e ancor prima di lui vi fu Giovanni da Pian del Carpine, frate francescano, predicatore, missionario ed esploratore che viaggiò nel cuore dell'Asia per due anni cercando inutilmente di convertire al cristianesimo il principe mongolo di allora, un discendente di Chinggis Khan.

Il Gobi è un altopiano irregolare e ghiaioso mosso da bassi rilievi e colli isolati. C'è poca sabbia e ancor meno dune, magnifica desolazione e dura bellezza.

Questo deserto, che deserto non è, conserva abbastanza erba e stentati cespugli da permettere il pascolo a pecore, capre e cammelli. In Asia il cammello ha due gobbe, è il celebre Camelus bactrianus, cugino del Camelus dromedarius, quello d’Africa, a una gobba sola. Le gobbe costituiscono un adattamento indispensabile in un ambiente secco e arido, sono riserve di grasso che garantiscono una sopravvivenza di qualche settimana anche senza cibo e acqua. 

 

Nella luce crepuscolare di Dalanzadgad vedo alzarsi nel cielo, fra sbuffi di fuoco e lingue di fiamma, coloratissima, una mongolfiera. E’ stata portata fin qua da un intraprendente giapponese per far divertire a caro prezzo connazionali in vacanza: un brevissimo volo legato ad un filo legato ad una jeep… sperduto nel deserto, tutto questo non ha alcun significato.

 

Almeno la metà dei due milioni e mezzo di abitanti vive nelle zone rurali allevando bestiame. Amano definirsi “il popolo dei cinque animali”; pecora, capra, bue (e yak), cavallo e cammello sono la loro ricchezza. Il sostentamento di un popolo nomade dipende in gran parte da questi animali che, oltre ad essere mezzi di trasporto, danno latte, carne, pelli, lana e combustibile; in una terra senza alberi lo sterco è infatti una validissima alternativa al legno. I bimbi imparano a cavalcare quasi ancor prima di camminare. Uomini a cavallo da tremila anni… Il cavallo, orgoglio mongolo, è più piccolo di quelli che siamo abituati a vedere, ma è ben più forte e - insostituibile! - dalla fermentazione del suo latte si ottiene l’airag, la bevanda nazionale, leggermente alcolica e frizzante, amatissima da oltre mille anni dai locali e, oggigiorno, anche dai non. 

Il mongolo è nomade fin nel cuore, è nomade nell’anima e non può adattarsi a vivere rinchiuso nelle città perché il mondo è la sua città, la pianura è la sua casa. Barzini, giornalista italiano in Mongolia nel 1938, scriveva: “I mongoli con le loro tende di feltro chiaro, fatte a cupola, viaggiano lentamente, muovendosi dietro le mandrie di cavalli. Sono sospettosi, superstiziosi, ignoranti, malati, selvaggi. Non vogliono legge, non vogliono tetti, non vogliono campi arati vicino a loro. Vogliono la libertà di muoversi come hanno sempre fatto…”. E’ oggi come allora, stesso mondo vergine, semplice e misterioso.

 

Nel dopoguerra i russi tentarono di trasformare la Mongolia in un paese industrializzato; in cambio di rame, grano o frumento impiantarono fattorie e costruirono le città capitali di Aimag (province). Questa trasformazione si accelerò nel 1962 quando la Mongolia divenne membro del CMEA (Communist bloc’s Council for Mutual Economic Assistance); allora, anche altri paesi facenti parte del CMEA installarono qui nuove industrie ricevendo in pagamento i prodotti finiti. Ma dagli inizi degli anni Novanta, con la caduta dell’Unione Sovietica, sono cessati i supporti esterni, gli scambi e gli aiuti economici e ogni cosa adesso sta lentamente morendo.  

Le città, distanti centinaia di chilometri le une dalle altre, si assomigliano un po’ tutte nell’urbanistica; hanno un piccolo museo, un minuscolo monastero, una piazza centrale, qualche brutto edificio ed una baraccopoli intorno. Le case di cemento si sbriciolano come fiori secchi che cadono in polvere, frammenti sparsi da ricostruire. I balconi restano pericolosi e pericolanti. Non c’è manutenzione, non esiste in una cultura nomade. Il parco, ridotto a bosco o a steppa, è chiuso da un recinto di metallo che, infisso su pannelli prefabbricati e su fondamenta di sabbia, sembra danzare la tarantella. La sabbia è ovunque, le fontane sono spente, intasate. Le statue di cemento, tutte molto bruttine in verità, frantumate lasciano intravedere la loro anima di metallo. Quando piove le vie diventano fiumi impercorribili ma conservano pur sempre un certo fascino: nel grigio più profondo tutto si rispecchia e una luce irreale inonda la città semi deserta.

 

E’ calata da poco la sera quando arriviamo all’alberghetto di Choibalsan. Una bibita prima di salire nelle stanze; l’aspetto non ci invoglia certo ad affrettarci, l’aria è impregnata di un odore acre e muffo, gli ubriachi ci seguono lenti su per le scale maleodoranti, uomo o donna non importa… ma c’è la sauna, e funziona.

 

Il soyombo è il simbolo della Mongolia, semplice e lineare ma di contenuto complicato. Lo si incontra un po’ ovunque, sulle monetine e nella bandiera: una fiamma – passato, presente e futuro – sovrasta il sole appoggiato sopra uno spicchio di luna; due triangoli con la punta rivolta verso il basso, piccoli e grandi rettangoli orizzontali e verticali – vittoria, onestà e integrità, amicizia - sono disposti a trattenere un’altra simbologia, due pesci con gli occhi aperti affiancati a formare un cerchio, fuoco e acqua, terra e cielo. Yin e yang, le due forze metafisiche supreme, opposte e complementari l'una all'altra, l'origine dell'universo, l'equilibrio vitale; l’energia femminile, oscura e passiva e l’energia maschile, luminosa e attiva. 

Arriviamo ad Ulaanbaatar con la Transiberiana, da Mosca è un bel salto ma è anche un’altra storia; le giornate ripetute e i ricordi già si mescolano, foreste senza fine e facce orientali. Il tempo perde di significato e si dilata. Ulaanbaatar, Eroe Rosso, l’antica Urga, si avvantaggiò moltissimo dell’aiuto sovietico, “il regalo di Brezhnev” come veniva chiamato. Centro politico, culturale ed industriale del paese, è sede del Teatro Nazionale, di Università, dell'Accademia Nazionale delle Scienze. Al Museo di Storia Naturale si possono ammirare gli scheletri pressoché completi dei dinosauri ritrovati nel Gobi. E straordinarie collezioni di dipinti, tanka e sculture sono raccolte nello Zanabazar Museum of Fine Arts. E’ una godibilissima sosta, ricca così com’è di grandi piazze, edifici neoclassici, viali alberati, musei, templi e monasteri. 

Come l’industrializzazione avrebbe dovuto soppiantare il nomadismo, così il comunismo avrebbe dovuto spazzare via il buddismo, ma non è accaduto del tutto; il Gandan Khiid è tuttora uno dei più grandi ed importanti monasteri della Mongolia. Nei monasteri i bimbi-monaci siedono ancora in file parallele, faccia a faccia seguono le preghiere come in un gioco e, stonati, suonano le loro conchiglie, le campanelle, battono il gong.

 

I mongoli sostengono di essere stati proprio loro gli inventori della musica per il mondo, il che potrebbe anche essere vero, sentiti i suoni che sanno emettere dal loro morin khour, uno strumento a corda ornato da una testa di cavallo, a volte di cigno, scolpita a mano nel legno. “Chi non sa suonare il morin khour o cantare una canzone non è un essere umano” dicono. E c’è il “suono lungo”, dove le note vengono emesse lentamente con una tristezza che nasce dal cuore, che canta delle steppe e della vita, di un magnifico cavallo che vola contro il vento. E poi l’altro canto, dove bocca, laringe e muscoli addominali vengono perfettamente controllati per imitare la natura, per emettere il suono del vento, il gorgoglìo dell’acqua; molte note sembrano uscire simultaneamente dalla gola di un solo uomo in un trillo ondulato, magico, è hoomii.

 

E riprendiamo il viaggio su due furgoni russi UAZ, quattro ruote motrici e copertoni scolpiti, veicoli speciali adatti a resistere e procedere (quasi) senza problemi sulle fangose e accidentate piste mongole. Siamo in nove, cinque amici, due autisti, l’interprete e la cuoca. 

Piove forte oggi nel “paese dal cielo blu”. Nel cielo compatto, chiazze d’azzurro purissimo si aprono fra strati di nuvole bianche sopra le grigie, sopra le nere. Piove e le piste diventano impossibili e scivolosissime, i guadi insormontabili; è come percorrere il letto di un fiume o, come qualcuno ha detto, guidare sul dorso viscido di un’anguilla. Il furgone sobbalza, si inclina a destra e a sinistra paurosamente vicino al ribaltamento. I metri diventano chilometri su queste piste, nastri rossi di terra graffiata nel verde.

 

La ger è la capanna ideale del nomade, una tenda mobile e flessibile; economica, calda ed accogliente, è un’ottima protezione contro i venti forti e gelati dell’inverno. E’ casa, un mondo totalmente indipendente ed autosufficiente, perfetta nella sua semplicità. Rotonda, la sua struttura è di legno completamente smontabile, ad incastri e parzialmente ripiegabile su se stessa, facile da trasportare e veloce da rimontare, comoda in estate quando gli animali seguono i pascoli e i pastori sono costretti a spostarsi più e più volte. Il legno è dipinto di arancione, il colore del sole. Il pavimento può essere di legno o di feltro o nuda terra, secondo la ricchezza dei proprietari. I muri sono pannelli a traliccio allungabile e la porta, bella e dipinta a colori brillanti, è sempre rivolta a sud. Due colonne centrali sostengono una piccola cupola aperta, sfiato per il fumo della stufa e ricambio d’aria; se necessario, un pesante telone la può richiudere. 

Fra cupola e muri tanti pali coloratissimi sono disposti a raggiera come in un enorme ombrello. Non ci sono parti metalliche, i singoli elementi si incastrano l’uno nell’altro o vengono legati con lacci di canapa o di pelle animale. Finalmente una pesantissima stoffa bianca trattiene a sandwich spessi strati di feltro e ricopre completamente il tutto.

Nelle piane sconfinate dove la dimensione si perde, le ger appaiono come piccolissimi gusci bianchi, puntolini perduti fra il mare verde ed il cielo. Vicino si intuiscono i cavalli, poche pecore, un recinto, un carro; e cammelli come formichine, sagome nere in fila sull’orizzonte. Esistono ancora antiche regole da seguire avvicinandosi ad una ger: mai bussare alla sua porta ma annunciarsi con “nokhoi khorioroi”, letteralmente “chiama il cane!”, per evitare il disastroso faccia a faccia con i temutissimi, amici fedeli ed alleati del nomade mongolo. Si oltrepassa la soglia con il piede destro, poi ci si saluta all’interno, mai da fuori. Gli uomini entrando si dirigono a sinistra, verso l’ovest e sotto la protezione di Tengger, il grande dio del cielo; le donne a destra, sotto la protezione del Sole. Sul fondo della tenda, di fronte a chi entra, c’è il divano per gli anziani e luogo riservato agli ospiti di riguardo; poco più a sinistra un altarino con immagini buddiste, scatoline, foto di famiglia. Vicino alla porta, a sinistra stanno gli immancabili contenitori per il latte, per il tè e le grandi borse rigide di cuoio per l’airag; dall’altro lato gli attrezzi da cucina e il recipiente per l’acqua. Attorno alle pareti due o tre letti. Al centro, oltre la stufa, un basso tavolo e minuscoli sgabelli. Tutti i mobili sono in legno tinto arancio e brillantemente decorati.

Fermarsi in una ger per chiedere informazioni e ritrovarsi seduti a mangiare è la regola visto che l’ospitalità è la regola della steppa. Sulla piccola tavola apparecchiata per noi c’è sempre l’aaruul, formaggio secco da sgranocchiare con gli yeven, biscottini poco zuccherati; e lo stupendo orom, lo strato di grasso scremato dal latte bollito a lungo, da spalmare sui boov, molto simili al nostro “gnocco fritto”, ma dolci. I peli nell’aaruul e le mosche nell’orom fanno parte del gioco, si tolgono e via. Poi ciotole di latte tiepido e tè salato, la bevanda classica; le ciotoline sono in radica di legno ricoperte d’argento e, ci viene detto, il latte bevuto da la dentro fa bene allo stomaco. Sapori antichi, incontri da non perdere; ma ce ne stiamo già andando… bayarlaa, bayartai! Parlano sottovoce i mongoli e le loro frasi si spengono come in un sussurro.

Altra sosta. Le donne della ger si stanno preparando per produrre un feltro. Capitiamo proprio al momento giusto. I nomadi, infatti, non brillano molto nelle attività domestiche e, oltre all’airag, formaggio e poco altro, giusto il feltro sanno fare in famiglia. 

La lana di pecora è già stesa per terra, adagiata sopra un telo; due donne la spruzzano a mano, bagnandola ben bene con dell’acqua mista al siero giallo del latte. Il siero farà da legante. Telo e lana vengono poi arrotolati strettissimi attorno ad un bastone, legati a salame, rullati sotto la forte pressione degli avambracci di quattro donne affiancate in ginocchio. Avanti così per almeno un’ora e ne uscirà un tessuto isolante, compatto, morbido e resistente. Ma questo telo è piccolo, non potrà essere che un tappeto. 

 

Una volta all’anno verso la metà di luglio e per tre giorni, ovunque nel paese, si tiene lo spettacolare Nadaam Festival, dedicato ai tre sport sicuramente più amati: la lotta, il tiro con l’arco e la corsa dei cavalli. E’ il più grande evento dell’anno. Alla lotta possono partecipare solo i maschi. Anche i nostri autisti, giusto per sgranchirsi un po’, di tanto in tanto nelle soste del viaggio giocano: l’uno di fronte all’altro, si muovono a gambe larghe col busto piegato in avanti e le braccia penzoloni, si afferrano, chi tocca per primo la terra perde... fatica e gesti antichi. E l’onore al vincitore sarà la lentissima danza dell’aquila, le braccia aperte ad imitare un movimento d’ali e pochi passi alternati con una gamba piegata, tallone al sedere... 

 

Gli ovoo stanno generalmente in luoghi elevati, su di un passo o in cima ad un colle. Sono ammassi di pietre, sassi, bottiglie vuote di vodka, ossa o pelli di animali e qualche (raro) soldino. Quasi cumuli di rifiuti, avanzi di mercato dal nostro punto di vista, a volte crescono drappeggiati con laceri brandelli di tela azzurra. Al mattino, ad ogni primo incontro, i nostri autisti fermano il furgone per compiere il rito, e noi con loro… non si sa mai, siamo nella terra degli Shamani. 

Tre giri tutt’intorno in senso orario – mai porgere il lato sinistro ad un ovoo – e ad ogni passaggio si lascia un sassolino, piccola offerta che va ad aumentare la montagnola; nella mente una raccomandazione, un ringraziamento, una preghiera. E’ allora difficile distinguere fra religione e superstizione che qui si mescolano privi di confini. Sono rituali che sopravvivono nel tempo senza che ne siano più rintracciabili le origini, quasi una forma di magia, atteggiamenti volti ad offrire sicurezza interiore. 

 

Anche il nostro è stato un gran giro tutt’intorno ad Ulaanbaatar, un anello allargato in senso orario. Oltre 4500 chilometri, otto ore di sobbalzi quotidiani con buche, guadi, graffi, botte, imprecazioni, esclamazioni… Ecco la Mongolia dell’erba e dei fiori selvatici, uomini a cavallo immobili all’orizzonte, sabbia, monasteri, dinosauri, cavallette a mezz’aria e vento che porta profumi lontani, spazi vuoti, il silenzio della natura, nuvole sfilacciate nel cielo immenso e luminoso, notti straordinariamente deliziose, una meraviglia di stelle... Poi il cerchio si chiude. Guarda che bello… l’arcobaleno sopra la ger!

 

 

Letture consigliate:

 

- Mongolia, lonely planet

- In Mongolia in retromarcia, di Massimo Zamboni, Giovanni Lindo Ferretti, Giunti

- Bestie Uomini e Dei, di Ferdinand Ossendowski, M.I.R. Edizioni

- CORTO MALTESE Corte Sconta detta Arcana, di Hugo Pratt, Einaudi

- Evasione in Mongolia, di Luigi Barzini jr, Viaggi e Avventura EDT

- Breve storia dei Mongoli, di David Morgan, Oscar Storia Mondadori

- GENGIZ-KHAN Primo imperatore del”Mirabile Dominium”, di Franco Adravanti, Rusconi

 

 

di Francesca Chiolerio   settembre 2000 

Fra il sogno e la memoria

 

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