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YEMEN - (2009) di Manuela Campanale | per info sul paese click sulla bandiera | |||
YEMEN: THE MOST BEAUTIFUL COUNTRY IN THE WORLD Febbraio 2009 | ||
“Lo Yemen, architettonicamente, è il paese più bello del mondo. Sana'a, la capitale, è una Venezia selvaggia sulla polvere senza S. Marco e senza la Giudecca, una città-forma, la cui bellezza non risiede nei deperibili monumenti, ma nell'incompatibile disegno... è uno dei miei sogni” Pier Paolo Pasolini | ||
Lo Yemen è sicuramente il paese islamico più intrigante ed affascinante. C’è un solo motivo per non visitarlo ed è che una volta visto un luogo tanto accogliente e fantastico, non ci sarà più nessun posto al mondo in grado di coinvolgervi ed emozionarvi così tanto! Non ci sarà più un altro paese in cui la popolazione vi farà sentire così incredibilmente benaccolti, non ci sarà mai più una città come Sana’a in cui sarete frastornati dalla sconvolgente bellezza degli edifici e dai richiami dei tantissimi bambini (e talvolta anche degli adulti) che in ogni angolo di strada vi chiederanno di fare loro una o tante fotografie e vi saluteranno ringraziandovi. Per cui, se decidete di visitare lo Yemen, pensateci molto bene, perché poi i viaggi successivi non saranno certo così straordinari e potrebbero deludervi. Ho girato mezzo mondo ed ho visitato tanti paesi affascinanti, ma le emozioni che ho provato nello Yemen sono state uniche e indescrivibili. Il calore umano che gli Yemeniti hanno dimostrato verso di me e mio marito mi ha davvero commosso ed è stata un’esperienza assolutamente indimenticabile ed irripetibile. La cosa curiosa è che fino ad un anno fa non mi sarei mai sognata di andarci dato che, se vi è capitato per sbaglio di aprire il sito della Farnesina www.viaggiaresicuri.it, vedrete che sul paese c’è un warning assolutamente scoraggiante, inoltre non pensavo proprio che lo Yemen avesse tanto da offrire. Lo avevo anche visto e fotografato, due anni prima, dal finestrino dell’aereo, al ritorno dalle Seychelles, e mi era parso talmente impervio e arido, con quella enorme zona desertica o montagnosa color ocra, che mai mi sarei aspettata di venirne attratta. E invece, parlandone per caso con due carissimi amici incalliti viaggiatori, ho scoperto che per entrambi è stato il viaggio più bello della loro vita e così, da un giorno all’altro, è nato in me un irrefrenabile desiderio di andarci. Ma l’impresa più difficile in assoluto è stata quella di convincere mio marito che sulle prime non voleva assolutamente neanche sentirne parlare. Io comunque ormai avevo preso quella decisione e sarei partita per lo Yemen anche da sola. Alla fine invece ha deciso di accompagnarmi, anche se fino all’ultimo è stato titubante, soprattutto per via dei rapimenti… Si, i rapimenti. Il problema principale è proprio quello: lo Yemen è tristemente famoso perché, soprattutto alcuni anni fa in cui il numero degli stranieri che lo visitavano era molto elevato, ogni tanto venivano “prelevati” dei turisti e “trattenuti” nella casa di qualche capo tribù per un po’ di giorni, fintantoché il governo non faceva quanto richiesto. Poteva trattarsi del pagamento di una somma di denaro ma altre volte le richieste riguardavano invece la costruzione di una strada o di una scuola. Non si tratta comunque di rapimenti come li intendiamo noi in Italia, come quelli tristemente famosi dell’Anonima Sarda. I turisti rapiti normalmente vengono trattati benissimo, anche se non è certo piacevole venir privati, anche se per breve tempo, della propria libertà. Comunque (non so se per incoscienza o perché di natura sono ottimista) il pensiero di poter essere rapita non mi ha mai minimamente sfiorato. Così il 4 Febbraio raggiungiamo l’aeroporto. L’inizio non si può dire che sia stato dei migliori in quanto l’autista del pullman che da Padova porta a Tessera, un autentico bifolco, aveva sfoderato una serie di comportamenti che mi avevano fatto decisamente cambiare d’umore e desiderare di prenderlo a calci nei denti. Voliamo con la compagnia di bandiera turca, la Turkish Airlines e, avendo già fatto il ceck in on line, ce la caviamo in pochi minuti, il tempo necessario a consegnare il bagaglio da imbarcare. Il volo, con scalo ad Istanbul, lo avevo acquistato poco tempo prima sul sito www.expedia.it a 470 Euro (tasse comprese) ed era, in assoluto, il volo per lo Yemen più economico che avevo trovato. In due ore arriviamo ad Istanbul dove però ci sono altre tre ore di attesa prima di imbarcarci per Sana’a. Era la prima volta che volavo con la Turkish Airlines e devo dire che il servizio a bordo è stato eccellente, così come il personale di bordo, veramente molto cortese. Per quanto riguarda i posti invece, noi eravamo nella fila 5, proprio a ridosso della tendina mobile che separa la classe economica dalla business a seconda delle esigenze. Questi posti a ridosso della tendina sono quindi spaziosissimi in quanto sono uguali a quelli della business, mentre più indietro, nella classe economica (mi pare dal numero 10 in su), sono decisamente strettissimi. Atterriamo a Sana’a all’una e mezza di notte. Ci mettiamo in coda per fare il visto che ci costa 60 $ (conviene decisamente farlo in aeroporto all’arrivo anziché in Italia). Cambiamo anche una certa quantità di Dollari all’ufficio cambi lì a fianco e andiamo al controllo passaporti. Si inizia subito bene in quanto l’ufficiale addetto mi chiede da dove vengo ed esordisce con un caloroso e sorridente “Welcome”. La valigia arriva subito, solo che, contrariamente agli accordi presi con il tour operator yemenita a cui mi ero rivolta, una volta usciti dall’area del ritiro bagagli non c’è nessuno ad aspettarci. Questo piccolo contrattempo ci consente di verificare subito la gentilezza degli Yemeniti. Vedendoci un po’ confusi, un ragazzo molto cordiale che sta lavorando lì ci chiede se abbiamo bisogno di aiuto. Gli spieghiamo che siamo sorpresi perché pensavamo di trovare qualcuno ad aspettarci. Lui allora ci chiede immediatamente il numero di telefono dell’agenzia locale a cui ci eravamo rivolti, ci fa accomodare su delle poltroncine e sparisce. Torna dopo 5 minuti e, dispiaciuto, ci spiega che ha chiamato ma che c’è stato un contrattempo (scopriremo poi che in realtà il tipo con cui avevo preso accordi ci aspettava il giorno dopo…) per cui dovremo raggiungere il nostro hotel (il Burj al Salam) con un taxi. Ci fa quindi accompagnare ai taxi, ma non vuole assolutamente che gli paghiamo né la telefonata né il disturbo e perciò lo salutiamo ringraziandolo. Raggiungiamo finalmente la parte vecchia di Sana’a dove c’è il nostro hotel e l’effetto è davvero stupefacente: sembra di essere in una favola. Tutti gli edifici sono meravigliosamente decorati, in un certo senso assomigliano alla casa della strega della famosa favola di Hansel e Gretel, fatta di biscotto e ricoperta di glassa e marzapane. Con le luci notturne è tutto talmente bello ed irreale che è difficile non pensare di stare sognando. Il nostro taxista deve essere poco pratico perché non sa assolutamente dov’è il Burj al Salam, tant’è che chiede informazioni di continuo alle rare persone che sono in strada a quell’ora. Finalmente alle 3 di mattina raggiungiamo l’hotel che si trova in un bellissimo palazzo tipico con decori in gesso, intarsi alle finestre e vetrate colorate e dopo neanche mezz’ora siamo a letto. Bisogna dire che pur essendo un 4 stelle a mio avviso non vale i soldi che costa (120 Dollari a notte) in quanto le stanze (che oltretutto hanno i letti separati) sono davvero piccolissime, per non parlare poi dei bagni ancora più microscopici, anche se è tutto pulitissimo. Probabilmente se tornassi a Sana’a alloggerei all’Arabia Felix di cui ho sentito parlare molto bene e che si trova ugualmente nella parte vecchia di Sana’a in un edificio storico, ma che costa quasi un quarto, essendo di categoria inferiore. Il nostro riposo dura purtroppo ben poco, dato che nemmeno un’ora dopo siamo svegliati dai muezzin che dall’alto dei minareti invitano i musulmani alla preghiera. Diciamo onestamente che il fatto di venire spesso svegliati in piena notte è stata la sola nota un po’ negativa, se proprio vogliamo fare i pignoli, del nostro viaggio, in quanto alcune volte io non riuscivo più a riaddormentarmi e al mattino ero semidistrutta dal sonno. Al mattino ci alziamo e andiamo nella terrazza del secondo piano per la colazione. Restiamo veramente colpiti dalla bellezza degli edifici che ci circondano, è davvero difficile descrivere Sana’a perché in tutto il mondo non esiste nulla di simile a cui la si possa paragonare. La città vecchia è stata dichiarata patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 1986. Scendiamo alla reception dove ci sta aspettando la ragazza del tour operator yemenita a cui mi ero rivolta. E’ giovane e carina, ci chiama Sara, ed è anche piuttosto loquace. Paghiamo in contanti quanto avevo pattuito per tutto il tour di 10 giorni ovvero 1800 Dollari in due (non mi era stato chiesto nessun acconto, né il numero della carta di credito). Sara ci dice che Hamid (il titolare del tour operator), per farsi perdonare il malinteso della sera prima, ci ha messo gratuitamente a disposizione una guida per il primo giorno che passeremo a Sana’a. A dire il vero a noi non fa particolarmente piacere perché avremmo preferito girare da soli, ma tant’è, oltretutto Abdul, la guida, è già lì. In realtà scopriremo poi che questo Abdul è un gran furbacchione per non dire un po’ imbroglione. Oltre ad Abdul, Sara ci presenta Ghanem (se volete contattarlo la sua e-mail è: mghanim2004@yahoo.com), il nostro autista, che scopriremo poi durante il viaggio essere invece una delle persone più straordinarie mai conosciute nella nostra vita. Per prima cosa ci facciamo portare all’Ambasciata Italiana per registrare la nostra presenza nello Yemen. Da pochi giorni ha cambiato sede e si trova un po’ fuori Sana’a, in una zona in cui ci sono parecchie altre ambasciate. Prima di arrivarci passiamo davanti alla maestosa nuovissima moschea del Presidente e ci fermiamo a fotografarla dato che è veramente imponente e ci cattura. Raggiungiamo finalmente l’ambasciata e dopo aver depositato macchine fotografiche e borse il un armadietto all’ingresso, entriamo e parliamo con il Signor Andrea, di cui mi aveva già parlato molto bene Monica, una mia amica di Padova che aveva lavorato come restauratrice a Sana’a fino a poco prima di Natale. Andrea, simpatico e gentilissimo, registra il nostro viaggio e ci dà un po’ di indicazioni, non molto confortanti per la verità. A parer suo l’attraversamento della zona fino a Marib (aperta da soli 10 giorni dopo una chiusura di mesi) e tra Marib e Seyun comporta dei seri rischi di rapimento, soprattutto perché siamo solo in due. Chiacchieriamo un po’ con lui, ci dà il suo numero di telefono e ci congediamo lasciandogli i nostri numeri di cellulare e con la promessa di mandargli un messaggio ogni sera, appena arrivati in Hotel. Ghanem nel frattempo se ne è andato via dato, che non era previsto che quel giorno restasse con noi. Restiamo quindi con Abdul, prendiamo un taxi e mi faccio portare (anche qui su indicazione di Monica) a Jamhal Street per comperarmi un vestito. | ||
E’ indispensabile fare una premessa: nello Yemen è assolutamente necessario vestirsi in modo adeguato ai loro costumi, in considerazione del fatto che le donne yemenite girano con un abito nero lungo fino ai piedi chiamato abaya e con il capo ed il volto quasi interamente coperti (si vedono solo gli occhi). Le donne straniere devono quindi avere un abbigliamento che copra interamente le gambe (pantaloni lunghi e non attillati o gonne lunghe fino ai piedi) e le braccia. Anche scollature e schiene nude sono off limits, ovviamente. Immaginate, tanto per fare un paragone, cosa succederebbe se una donna delle tribù degli Himba (Namibia), per la quale è normalissimo e assolutamente naturale girare in topless con addosso solo un microscopico gonnellino in pelle, venisse in Italia e pretendesse di girare qui vestita in quel modo… E’ lo stesso effetto che causeremmo noi se indossassimo nello Yemen i nostri consueti abiti estivi, anche quelli più castigati. Bisogna ricordare che nello Yemen a Febbraio non fa ancora caldissimo, ma la temperatura massima può raggiungere i 30 gradi per cui non è facile trovare un abbigliamento adatto che soddisfi i requisiti richiesti senza far schiattare dal caldo. Prima di partire avevo provato a scandagliare i miei armadi, ma non avevo trovato praticamente nulla di idoneo, anche perché non mi andava di vestirmi come un pagliaccio con cose che non si abbinavano, né mi andava di spendere parecchi soldi per capi di abbigliamento che non avrei mai più utilizzato. Mi è parso allora che l’unica soluzione pratica fosse quella di indossare l’abaya (che costa solo una ventina di Dollari) sopra i miei normali abiti estivi. Ovviamente non si è obbligati ad indossarla, è solo stata una mia scelta per una questione di comodità, e devo dire che si è rivelata molto azzeccata. Fortunatamente almeno, contrariamente a quello che ad esempio succede in Iran, le donne straniere non hanno l’obbligo di coprirsi la testa e questo è un bel sollievo perchè se non altro ci evita l’effetto “befana”. Le donne yemenite meritano un discorso a parte e piuttosto complesso. A Sana’a ed in molte altre città è impossibile vederne in giro a volto scoperto, non si può parlare con loro e non si possono fotografare. Sono totalmente vestite di nero e l’unica cosa che mostrano sono gli occhi ma nemmeno tutte, dato che alcune hanno sopra un ulteriore sottile velo nero che impedisce di vederli. Non so in effetti e non sono riuscita a capire come loro sentano veramente questa antica tradizione, se la vedano come una costrizione di cui farebbero volentieri a meno o se invece la trovino una comodità. La mia personale opinione è che il burqa, che ho comperato e provato ma mai indossato per uscire, dà comunque anche alcune libertà: ad esempio di non dover avere necessariamente i capelli in ordine e di non dover essere truccate. L’effetto che si ha è quello di essere praticamente “invisibili” in quanto si possono vedere gli altri ma gli altri non vedono noi, ad eccezione degli occhi. Io, se non mi fossi sentita ridicola, non avrei avuto problema ad indossarlo per pochi giorni, anzi lo trovavo una cosa piuttosto divertente. Certo che un conto è avere la libertà di indossarlo per pochissimo tempo, un’altra cosa ovviamente è essere obbligati ad indossarlo tutta la vita, sono due cose completamente diverse e neanche minimamente paragonabili. Nonostante le ragazze e le donne siano completamente coperte, sia io che mio marito ci siamo sempre fatti però un’idea se la ragazza fosse bella o no, probabilmente quello che immaginavamo non corrispondeva poi alla realtà, ma alcune ragazze sembravano molto attraenti mentre altre no, cosa che, ovviamente, non abbiamo mai potuto confermare. Comunque secondo noi le donne yemenite sono, oltre che fisicamente filiformi e abbastanza alte, anche generalmente affascinanti. L’atteggiamento di quelle poche che abbiamo potuto conoscere (e di cui parlerò via via nel racconto), gli sguardi ed i sorrisi che ci scambiavano anche sotto il velo fanno pensare che siano ragazze anche molto sveglie e vivaci, e che gli uomini abbiano quindi tutto l’interesse a mantenerle in uno stato di sottomissione, tappate in casa ad occuparsi dei figli (mediamente 6-7 per ciascuna donna) per evitare di essere surclassati dalle loro capacità e di perdere il loro predominio faticosamente raggiunto negli anni. Dico questo non per amore di polemica o perché io sia veramente femminista (come mi piace far credere ai miei studenti), ma perché l’impressione che abbiamo avuto è che gli uomini yemeniti siano mediamente molto meno intraprendenti e vispi pur godendo di tutte le libertà che alle donne sono attualmente negate. Scendiamo dal taxi e Abdul mi porta in un negozio per acquistare la mia abaya. Dopo una breve occhiata agli abiti esposti ne scelgo una con dei bei ricami con strass sulle maniche. Prendo anche una sciarpa nera anch’essa con un ricamo, per coprire la lieve scollatura. Il tutto mi costa 5500 YR, un vero furto scopriremo poi, ma evidentemente ho pagato anche la percentuale di Abdul: è noto infatti che in ogni parte del mondo le guide prendono una percentuale dai negozianti a cui portano dei clienti e che ovviamente va a gonfiare il prezzo praticato. Ci dirigiamo a piedi verso la Sana’a vecchia. Cominciamo a notare che praticamente tutti gli uomini portano legata alla vita la jambija, il tipico pugnale yemenita che per loro ha una funzione puramente decorativa un po’ come la cravatta per gli uomini occidentali ed è anche un simbolo di virilità. Chiedo a qualche ragazzo di poterlo fotografare e scopro che non solo quasi tutti sono ben felici di mettersi in posa, ma che anzi ci rimangono un po’ male se non glielo chiedi. Sono particolarmente cordiali e curiosi, ci chiedono di dove siamo e la frase che sentiamo più spesso è “Welcome in Yemen”. Siamo molto colpiti da tanta ospitalità che non ci aspettavamo e che, ancora non lo sapevamo, sarà il leit motiv di tutto il viaggio. Raggiungiamo finalmente la parte vecchia di Sana’a, passando prima dal mercato del qat. Molti uomini ci fermano anche qui per chiederci da dove veniamo, ci danno il benvenuto e ci chiedono di essere fotografati. Quando si rivedono nel monitor della mia Nikon sono molto felici e ringraziano orgogliosi e sorridenti. Il qat è una pianta coltivata nello Yemen e che viene utilizzata dalla quasi totalità dei maschi yemeniti. Il rito della masticazione delle foglie di qat inizia nel primo pomeriggio e si protrae per ore e ore, fino a sera. Praticamente questo rito consiste nell’introdurre in bocca le foglioline di questa pianta, masticarle e quando sono ormai prive di sapore riporle nella guancia. Un po’ alla volta la quantità delle foglie comincia ad aumentare fintantoché si forma un globo, via via sempre più grande fino a raggiungere le dimensioni anche di una pallina da tennis. Gli uomini che masticano qat hanno quindi questa asimmetria nelle guance dato che in una delle due comincia a crescere una protuberanza man mano che la palla di qat si ingrossa. In realtà, ci racconterà Ghanem alcuni giorni dopo, quello del qat sta diventando un grosso problema sociale per almeno quattro motivi. Il primo di tutti è legato alla salute dei denti e ad un possibile contenuto di sostanze cancerogene. Il secondo è il suo prezzo: masticare qat costa, considerando che lo Yemenita medio non naviga nell’oro, questo può incidere in maniera sostanziale sulle finanze della famiglia. Il terzo problema è legato invece alla perdita di tempo che l’uso del qat comporta: mentre masticano queste foglie gli uomini praticamente non lavorano più, o comunque sono molto più indolenti. Il quarto motivo è ecologico: il qat viene venduto in sacchettini di plastica che ne preservano il contenuto di umidità e che poi vengono gettati ovunque contribuendo in maniera sostanziale all’inquinamento. Abbiamo visto spesso interi campi in prossimità di centri abitati, costellati di “fiori” colorati che altro non erano che i sacchettini di plastica vuoti. Il nostro giro continua tra edifici spettacolari e le grida gioiose dei bambini che non appena ci vedono si mettono ad urlare “sura” (fotografia) e “qalam” (penna) inizia così la distribuzione del centinaio di penne a biro che avevo raccolto tra colleghi ed amici prima della partenza. E’ difficile descrivere tutto con le parole, ma ci si sente travolgere dalla loro simpatia, ed è impossibile non stare al gioco del foto-penna-welcome. Dopo chilometri di questa manfrina entriamo in un negozio dove comperiamo 4 jambije con dei foderi molto belli. Abdul ci dice che andremo a mangiare al ristorante Al-Shaibani per cui prendiamo un taxi. Noi ordiniamo del pesce che scegliamo direttamente nelle cucine del ristorante dove ci introduce Abdul che evidentemente è di casa. Vediamo anche come viene preparato il pane yemenita che è una specie di piadina gigantesca con una consistenza a metà strada tra la base per la pizza e la pasta sfoglia: in assoluto il pane più buono che si possa mangiare, se si esclude la baguette francese appena sfornata ma di tutt’altra consistenza. Il ristorante è pieno ma riusciamo comunque a trovare un tavolo libero. Ai tavoli vicini ci sono delle famiglie con tanti bambini. Le donne in alcuni casi si tolgono il burqa mentre altre addirittura si infilano il cibo in bocca sotto il velo nero. Abdul ordina di tutto e di più: oltre al pesce per noi e carne per lui, due tipi di riso, pane, verdure, dolci, miele (che poi lui si porta via) e spendiamo (noi ovviamente!) una cifra iperbolica per un posto del genere: 30 Dollari in tre. Come ci confermerà poi Ghanem alcuni giorni dopo, l’astuto Abdul non solo ha scroccato il pranzo nel ristorante costoso, ma ha chiaramente avuto una percentuale pure lì, altrimenti non si potrebbe spiegare una cifra così alta. Io sono piuttosto alterata ma non dico nulla, è chiaro che per un giorno posso anche tollerare queste cose senza mettermi a piantar grane, ma appunto perché si tratta di un giorno solo!!! Pagato il salatissimo pranzo prendiamo un taxi e torniamo in hotel anche perché io voglio indossare il mio abito nuovo dato che con i pantaloni e la felpa con le maniche lunghe ho troppo caldo. Ma appena entrati nell’hotel la signora alla reception ci dice che ha chiamato Andrea, dall’Ambasciata. In effetti ci accorgiamo che ci sono due chiamate sul telefonino che non avevamo sentito. Lo richiamiamo e apprendiamo che la situazione nella zona di Marib pare essere improvvisamente peggiorata, per cui ci invita a rivedere il nostro percorso e ad evitare appunto di passarci. Chiamiamo subito Hamid per sentire se si può cambiare il percorso. Lui invece ci dice molto calmo che ha ormai tutti i permessi per passare i vari ceck point sulla strada per Marib, il che significa, secondo lui, che è tutto a posto, dato che in caso di pericolo non sarebbero stati rilasciati. Si tratta allora di decidere cosa fare: io sono propensa ad andare a Marib in quanto sono tranquilla e intimamente convinta che un reale pericolo non ci sia, mentre mio marito è piuttosto titubante e vorrebbe cambiare percorso. Lascio a lui la scelta anche perché non vorrei mai, in caso di guai, sentirmi rinfacciare qualcosa. E’ chiaro che anche a me scoccerebbe parecchio passare la mia settimana di viaggio “trattenuta” nella casa di qualche capo tribù e, soprattutto mi darebbe ancora più fastidio la figura di m… che faremmo con l’Ambasciata Italiana che ci aveva avvisati. Per non parlare della mia famiglia, a Trento, che mi pensa a Dubai. Ma come avrebbe reagito mia madre se avesse sentito il mio nome al telegiornale? Prima di tutto, riavutasi dal malore, si sarebbe chiesta come mai da Dubai mi avessero portata fin nello Yemen… Ebbene si, mia madre, malgrado la mia età, vorrebbe comunque ancora dire la sua su qualsiasi cosa io faccia, per cui io questa volta, memore della solfa che mi aveva piantato alcuni anni prima quando ero andata da sola ad un congresso al Cairo subito dopo alcuni attentati avvenuti nella zona del mercato e del museo egizio, ho deciso di operare una…ehm…piccolissima variante alla meta del mio viaggio ed ho deciso di dirle che sarei andata nella tranquilla Dubai in modo da non farla stare inutilmente in ansia e, soprattutto per evitarmi le solite manfrine. Alla fine la decisione viene rimandata alla mattina successiva. | ||
Andiamo a fare un giro nel suq a pochi passi dal nostro hotel. Quello che mi stupisce è che ci sono molti negozi in cui sono esposti degli abiti stupendi, colorati, scollatissimi, pieni di ricami e di pailettes e mi chiedo se effettivamente vengano venduti e, soprattutto, quando vengano indossati. Forse in casa alla sola presenza del marito? La zona del mercato è molto varia: c’è la zona delle spezie, quella delle jambije, quella dei negozi di abbigliamento, quella in cui viene venduto il qat… Continuiamo il nostro giro nel suq in mezzo alle bancarelle, ogni tanto qualcuno cerca di farci avvicinare alla bancarella per invitarci a comperare, ma non sono mai insistenti anzi, la maggior parte delle volte vogliono solo chiederci da dove veniamo e appena spieghiamo che siamo Italiani cominciano a nominare le varie squadre di calcio, il Milan, l’Inter, Baggio, Totti… Usciamo dal mercato e continuiamo per Sana’a raggiungendo il cortile interno del palazzo in cui, ci dice Abdul, sono state girate alcune scene del film “Il fiore delle mille e una notte” di Pier Paolo Pasolini. Ci sono uomini che sorseggiano il the e masticano qat. Entriamo anche noi, sono molto gentili anche qui, ci invitano ad accomodarci sulle panche disposte tutt’intorno al cortile e ci offrono del the che accettiamo volentieri. Molto cordiali e curiosi, si informano sulla nostra provenienza, ci domandano se ci piace Sana’a (ma a chi può non piacere??) e tante atre cose. Dopo una mezz’ora ci congediamo ringraziando del the che ci hanno offerto, usciamo e continuiamo il giro, travolti da bambini in cerca di foto e penne. Tra un welcome e l’altro arrivano le sei di sera e torniamo in hotel. Lasciamo finalmente Abdul che, non contento delle varie percentuali che è riuscito ad ottenere con le nostre spese gonfiate ad arte, non sembra neppure contento per la mancia da 10 $ che gli lasciamo e che io visibilmente seccata, non ho la minima intenzione di aumentargli. Ceniamo in hotel, la cena a buffet non ha nulla per essere ricordata, se non il prezzo molto alto rispetto agli standard yemeniti. La notte, per fortuna, porta consiglio a mio marito che il mattino dopo, con mia grande gioia, mi manifesta la sua decisione di proseguire il nostro giro così come inizialmente previsto senza apportare modifiche ed… incrociando le dita. Facciamo colazione e subito dopo saliamo all’ultimo piano dove c’è una grandissima terrazza dalla quale si possono fare delle belle fotografie alla città. Alla reception ci imbattiamo in una comitiva di Tedeschi che avevamo già intravisto a cena la sera precedente. Ci raccontano di essere stati a Marib due giorni prima e si dimostrano entusiasti per l’esperienza, rassicurandoci parecchio. Ghanem ci sta aspettando e alle 8.30 lasciamo l’hotel in quanto è necessario presentarsi al ceck point puntuali alle 9 di mattina per formare una carovana di auto che partirà scortata. Scopriamo che, oltre a noi, c’è solo un altro fuori strada con quattro cittadini di nazionalità turca a bordo. Aspettiamo fermi al ceck point per più di tre quarti d’ora. Ghanem è furioso, ci spiega che se si arriva lì con due minuti di ritardo si hanno un sacco di problemi, ma poi bisogna sempre aspettare delle ore prima che si organizzino per mettersi in moto. Dopo 50 minuti finalmente si parte e… sorpresa scopriamo il motivo del ritardo: il pick up della scorta è fuori uso per cui i 5 uomini armati di kalashnikov che ci sono stati assegnati ci seguiranno in… taxi! Ghanem è tra il divertito e l’inferocito e le battutacce si sprecano. Cominciamo a conoscere Ghanem che oltre a parlare benissimo inglese come se fosse la sua lingua madre (è lui che ci corregge alcune volte) è anche un uomo molto intelligente, con uno spiccato senso critico e che dimostra inoltre un raro spirito arguto. Ha viaggiato molto anche al di fuori dello Yemen, è stato in Europa, negli Stati Uniti, in Iran ecc., e questo gli ha permesso di confrontare le varie realtà prendendo coscienza di alcune cose che nello Yemen assolutamente non funzionano. Oltretutto Ghanem è si è rivelato da subito una persona simpaticissima che sa scherzare e stare al gioco per cui da subito si è instaurato tra di noi un ottimo rapporto di amicizia vera ed abbiamo riso e ci siamo divertiti parecchio durante tutto il viaggio. La confidenza mi ha portata, più di una volta, persino a dimenticarmi che era yemenita e a rivolgermi a lui in italiano. Ovviamente i due maschietti si sono subito coalizzati contro di me, dato che, nonostante indossassi l’abaya, non manifestavo particolari segni di sottomissione come era invece nelle loro aspettative… Per Ghanem inizialmente ero quella “terrible and crazy” salvo poi guadagnarmi, dopo i primi due giorni, un veloce upgrade a “strong and nice”. Incominciamo il viaggio “scortati”. Iniziamo subito bene, la strada è intasata per cui facciamo una deviazione che ci porta a percorrere un breve tratto sterrato, ma mentre noi con il nostro fuoristrada Toyota ce la caviamo benissimo, il taxi con la nostra preziosissima scorta rischia di rimanere insabbiato diverse volte. Ghanem ci racconta come alcuni mesi prima lui stesse accompagnando alcuni giornalisti americani e come, raggiunto quel ceck point, la scorta si fosse rifiutata di accompagnarli una volta saputa la loro nazionalità. Lui allora si era dovuto prendere la responsabilità di portarli in giro senza scorta ed era ovviamente molto arrabbiato per la bruttissima figura fatta con gli Americani. Constatava con amarezza e con arguzia come gli Yemeniti amino poco gli Americani, ma in compenso apprezzino parecchio i loro Dollari… Dopo circa 10 km ci troviamo al primo di un numero imprecisato di ceck point, non ci siamo presi il disturbo di contarli, ma ce ne sarà stato uno ogni 10-15 km. Ogni volta Ghanem doveva fermarsi, consegnare un foglio di lasciapassare che serviva a dimostrare che lui era autorizzato a trasportarci. In caso di rapimento inoltre, si sarebbe riusciti a risalire almeno alla zona in cui eravamo stati sequestrati. Ad ogni ceck point oltre a ritirare il lasciapassare i militari gli chiedevano sempre da dove venivamo. Di solito guardavano in auto, ci sorridevano e ci salutavano molto cordialmente. Dopo l’ennesimo ceck point, avendo ormai “perso” il nostro taxi-scorta, ci viene assegnata una strepitosa camionetta con mitragliatrice installata e sei aitanti soldati armati fino ai denti tra le risatine sotto i baffi di Ghanem. Nell’ultimo tratto di strada lasciamo la camionetta di scorta che viene sostituita da un soldato che col suo bel kalashnikov in spalla sale in auto con noi. Ci auguriamo che lo sappia usare e che abbia la sicura inserita perché il tipo pare piuttosto addormentato e non dà quindi nessun affidamento. Per la strada notiamo che quasi tutti gli uomini hanno il kalashnikov a tracolla, esattamente con la stessa disinvoltura con cui di solito da noi si porta uno zainetto. A dire il vero la cosa non ha nulla di inquietante perché queste persone hanno un’aria talmente mite che non si riesce ad immaginare proprio perché lo dovrebbero utilizzare. Evidentemente, anche se penso che possa sembrare paradossale, il kalashnikov è solo un simbolo di potere che usano per darsi un tono e nulla più. Dopo più di tre ore di strada in un deserto roccioso (molto simile a quello egiziano che dal mar Rosso porta a Luxor) arriviamo finalmente a Marib e raggiungiamo l’Hotel Bilquis. All’ingresso del grande parco che lo circonda integralmente e che è delimitato da un muro molto alto, ci sono delle guardie armate che ci lasciano entrare solo dopo aver visto il nostro lasciapassare. L’hotel è una grande struttura anni 70 un po’ in declino di cui siamo gli unici ospiti! Sistemiamo il tutto nella stanza e scendiamo con l’intenzione di invitare Ghanem e il militare di scorta a pranzo con noi, ma se ne sono già andati. Nella sala da pranzo ci sono parecchi tavoli preparati ed infatti arriva una trentina di persone, solo uomini, ovviamente, quasi tutti accompagnati dal loro inseparabile kalashnikov. Ma quello che ci colpisce negativamente è che gli uomini della scorta mangiano ad un tavolo separato dagli altri… Noi mangiamo piuttosto bene del pollo alla griglia, una minestra yemenita molto piccante e un piatto di verdura freschissima. Ci portano anche un dolce delizioso con del miele in omaggio. Alle tre e mezza del pomeriggio, come stabilito, Ghanem passa a prenderci per visitare Marib. Usciamo dal giardino e non crediamo ai nostri occhi: ci sta aspettando una camionetta di scorta con ben otto militari a bordo! Passiamo a vedere la Marib vecchia: è una città in rovina che domina la strada da una collina ed i suoi contorni hanno un aspetto spettrale ed inquietante ma nello stesso tempo affascina. E’ stata danneggiata durante i bombardamenti della guerra civile nel 1962. Come seconda tappa ci attende il Tempio di Bilquis. Risale all’800 a.C. ed era dedicato al dio Sole. Restano però purtroppo solo pochi resti. Scendiamo dall’auto assieme a due militari armati ed entriamo da una porta per avvicinarci un po’. C’è un uomo con un bambino armato di kalashnikov che si mette in posa, orgoglioso, per una fotografia. Andiamo poi al Tempio della Luna che doveva essere bellissimo anche se ora ne rimane ben poco tra cui 6 famose colonne (secondo millennio a.C.). Lo aprono apposta per noi, due bambini ci seguono, diamo loro delle penne e facciamo anche delle fotografie, ci vogliono vendere collane e timbri. Anche stavolta un militare scende con noi e ci accompagna armato. Andiamo poi alla grande Diga di Marib che venne costruita nell’ottavo secolo a.C. Ora restano da vedere solo due chiuse, ma ha un’imponenza impressionante. L’ultima tappa è la nuova diga costruita nel 1986 dal Presidente degli Emirati Arabi Uniti. Finito il giro, sempre con la scorta appresso, torniamo indietro e la cosa buffa che non si può fare a meno di notare è che il mercato nero delle armi si trova solo ad un centinaio di metri dal ceck point… Davanti alla porta di ingresso dell’hotel siamo letteralmente travolti da un gruppo di donne velate che vogliono farci fotografare i loro figli. E’ una situazione tra il ridicolo e il fastidioso perché senza tante cerimonie ce li piazzano davanti come in una catena di montaggio aspettando che li fotografiamo ad uno ad uno. Mentre sono in piedi accanto a loro, i miei capelli diventano un polo di attrazione dato che me li osservano e me li toccano. Ad un certo punto però perdo la pazienza: una donna vuole che fotografi il bambino che ha in braccio ma, con malo modo, mi dice che non posso assolutamente fotografare lei. Siccome essere dotati di buona educazione è il primo requisito per poter ottenere qualcosa da me, a quel punto le dico un secco: “I’m not your slave!” giro i tacchi e rientro in hotel abbastanza scocciata. Cavoli, ma mi hanno presa per la loro schiava? Prima di lasciarci, Ghanem ci comunica che la mattina successiva saremmo partiti alle 4.30. Lo invitiamo a fermarsi a mangiare con noi ma ci dice che non può perché deve assolutamente organizzare molte cose per il giorno dopo. Ceniamo velocemente e ci fiondiamo a letto per tentare di dormire qualche ora. Ci alziamo alle 3.30, sembriamo due zombie. Ci trasciniamo all’ingresso con le valigie. Beviamo una tazza di the con una squisita fetta di torta e riceviamo una scatola con la colazione. Ghanem arriva al solito puntualissimo e ci presenta Barak e Naji, due fratelli di 25 e 14 anni che saranno le nostre guide beduine nel deserto. Partiamo subito senza alcuna altra scorta, dato che le nostre nuove guide sono già armate di kalashnikov. Durante la prima parte del tragitto, per circa 50 km percorriamo una strada asfaltata. Ci sono parecchi ceck point ed ogni volta che ci fermiamo il militare di guardia con una pila illumina l’interno dell’auto per assicurarsi, presumo, che vada tutto bene. Per evitare equivoci cerchiamo di avere un’aria sveglia e sorridente che li tranquillizzi: non siamo ancora stati rapiti! Passiamo anche davanti a diversi impianti petroliferi. Ghanem ci racconta tante cose tra cui che ogni giorno vengono estratti 11 milioni di barili di petrolio e che le compagnie petrolifere versano il 50% degli utili allo Yemen. Raggiungiamo finalmente il deserto quando ormai sta albeggiando: sono quasi le 6 del mattino. All’ingresso della pista sterrata ci fermiamo per sgonfiare un po’ le ruote dei fuoristrada in modo che abbiano maggior aderenza. C’è un silenzio surreale che crea un’atmosfera bellissima. Ci inoltriamo nella pista e ad un certo punto, nel momento in cui il sole comincia a far capolino tra le dune, ci fermiamo. Barak ci invita ad arrampicarci sul crinale di una duna, la sabbia è fredda e si fa una fatica terribile a salire perché si sprofonda. Anche Ghanem e Naji salgono con noi. Ci fermiamo sulla sommità: è emozionante la visuale sulle dune intorno, da togliere il fiato! Scendere dalla duna è bellissimo, ci si butta giù e basta, che divertimento! Dopo un’altra ora circa ci fermiamo a bere il the presso un accampamento beduino. Ghanem ci dice che è della famiglia di Barak. Veniamo accolti da alcuni giovani e da una signora anziana. Uno dei ragazzi, Bachir, è bellissimo ed ha una storia tremenda alle spalle, come ci racconta Barak. E’ un Somalo arrivato dalla sua terra su un barcone di profughi e tutta la sua famiglia è morta annegata in quanto i delinquenti senza scrupoli che organizzano quelle traversate si fermano sempre a qualche centinaio di metri dalla riva per evitare di essere arrestati e buttano in mare tutte le persone a bordo. Chi non sa nuotare a quel punto è spacciato. La famiglia di Barak fortunatamente ha assunto Bachir come aiutante per accudire il piccolo gregge di capre. Bachir prepara il the per tutti, non parla ma è molto felice quando gli domando di potergli fare delle fotografie. Il the, preparato con mezzi di fortuna su un fuoco improvvisato, è molto buono e lo beviamo volentieri. Ripartiamo dopo 20 minuti, stringiamo le mani alla signora che ci manda un bacio e a Bachir che mi guarda incredulo. Continuiamo la nostra attraversata del deserto tra paesaggi emozionanti. Incontriamo anche un gruppo di giovanissimi cammellieri e ci fermiamo a fotografarli. Siamo in mezzo alle dune e ne raggiungiamo una veramente sinuosa e splendida. E’ ormai l’ora della colazione per cui ci fermiamo: abbiamo uova, pane, formaggio, pomodoro e un dolce. Mangiamo tutti assieme e dividiamo quello che ciascuno di noi ha portato. Mentre io fotografo un’altra duna molto suggestiva che pare avere pure un nome che però non mi ricordo più, mio marito mi chiama per farsi immortalare con un mitra pesantissimo in mano. Continuiamo il nostro splendido giro, la sabbia è stranamente ancora costellata di piantine verdi, qualcuna ancora fiorita, deve essere stato uno spettacolo vedere il deserto interamente ricoperto di fiori, ma questo accade solo nella stagione delle piogge che quest’anno, ci dice Ghanem, sono state particolarmente abbondanti. | ||
Dopo un altro bel tragitto nel deserto che nel frattempo è diventato più pianeggiante con delle dune bassissime, raggiungiamo Shabwa, l’antica capitale dell’Hadramout di cui non rimane però che un cumulo di macerie. Fondata tra il 1200 e il 1500 a.C., a quei tempi doveva essere una città splendida. Ghanem ci dice che gran parte degli edifici sono ancora sotto la sabbia e chissà quando la città verrà riportata integralmente alla luce. Più avanti c’è anche una piccolissima miniera di sale. Continuiamo, attraversando una zona desertica che in quel punto si snoda in mezzo ad un canyon circondato da montagne piatte simili a quelle che si trovano nella Monument Valley, negli USA. Ad un certo punto ci imbattiamo in un gruppetto di uomini che stanno camminando sotto il sole cocente. Il loro pick up si è insabbiato. Ci pensa Barak a trainarlo velocemente sulla strada, ma dopo nemmeno un chilometro è il suo fuoristrada ad avere problemi: un pneumatico è a terra. Velocissimo cambio della ruota e poi via di nuovo fino alla fine della zona desertica. Ci fermiamo a pranzare nella polverosissima città di Hawra. Il ristorante ha tavoli e sedie ricoperti di sabbia, non si sa proprio dove appoggiare le cose. Conosciamo due simpatiche signore canadesi che con un’amica somala stanno girando lo Yemen. Sono state anche in Oman e sono molto soddisfatte di quello che hanno visto finora. Ci congediamo da Barak e Naji con una buona mancia che loro gradiscono molto. Noi con Ghanem proseguiamo verso Shibam mentre loro ripercorreranno la stessa strada arrivando a Marib in tarda serata. Shibam è una città molto famosa, chiamata anche la Manhattan del deserto. La sua prerogativa è quella di essere composta da edifici molto alti (mediamente 8 piani) costruiti interamente in mattoni di fango. La vediamo in lontananza e la fotografiamo dall’esterno. Bisogna dire che dal di fuori è parecchio suggestiva, ma la visita all’interno della città è rimandata al giorno successivo. L’ultima tappa è il nostro hotel a Seyun, l’Al Hawta Palace Hotel. E’ considerato il miglior hotel di tutto lo Yemen ed è interamente costruito in fango ed argilla. E’ effettivamente vero, dal punto di vista architettonico è un’autentica meraviglia. Le camere sono molto ampie ma semplici, arredate con gran classe con pezzi antichi di grande valore, cassapanche ed armadi finemente intarsiati e decorati ma con gusto, non c’è assolutamente nulla di ostentato e pacchiano. Ci sono dei piccoli cortili interni con fiori e scorci stupendi. Ceniamo all’interno dell’hotel e ci rendiamo conto con tristezza che anche qui in questo paradiso siamo gli unici ospiti… La mattina dopo, a colazione compaiono tre Giapponesi, allora non eravamo solo noi gli ospiti!!! Siamo in super ritardo perché mi è caduto in terra il polarizzatore che per fortuna è rimbalzato su un tappeto e non si è rotto, ma solo aperto, per cui abbiamo perso un sacco di tempo per rimetterlo in sesto. Partiamo quindi alle 8.30 anziché alle 8 come previsto e ci scusiamo con Ghanem che invece arriva a prenderci sempre puntualissimo. Il programma prevede che per prima cosa si visiti Seyun dove la prima tappa è il famoso palazzo del Sultano che tutti descrivono bianchissimo e simile ad una torta nuziale e che secondo me invece della torta nuziale non ha proprio nulla e inoltre non è nemmeno bianchissimo. All’interno c’è un piccolo ed insignificante museo con reperti archeologici e una mostra fotografica in cui si possono vedere le condizioni di vita della gente all’inizi del 1900 e constatare così come nello Yemen, diversamente da molte altre parti del mondo, il modo di vestire non sia assolutamente cambiato, se non altro per le donne. Un omino ci apre una porta che ci consente di salire su una terrazza panoramica da cui si vede tutta la città. Scendiamo e non trovando Ghanem vaghiamo un po’ per l’edificio. Finalmente lo intravediamo seduto in un bar di fronte all’entrata del palazzo. E’ con alcuni amici che non appena ci vedono ci accolgono calorosamente e ci fanno accomodare al loro tavolo. Mentre ci beviamo un the facciamo la conoscenza di un signore tedesco che sta attraversando tutto lo Yemen da solo utilizzando i mezzi pubblici. Anche lui si dichiara entusiasta sia dello Yemen che del calore umano degli Yemeniti. Ci congediamo da lui e da tutti gli amici di Ghanem, non prima di aver scattato un bel po’ di fotografie a tutti e facciamo un giretto nel suq. Decido di comperarmi un altro abito nero per avere un cambio. Mentre sto cercando quello che ha il ricamo sulle maniche che più mi piace entrano tre ragazze velate molto giovani con le quale scambio poche parole e molti sorrisi dato che una sola di loro parla un po’ di inglese. Quello che traspare dal loro comportamento e da quello di tante altre donne incontrate per strada è che se queste ragazze non fossero “ingabbiate” nei loro burqa neri sarebbe molto più facile instaurare un rapporto perché in realtà avrebbero un’indole assai spigliata e vivace. Il burqa invece le taglia fuori dal mondo in un certo senso, ed agli uomini yemeniti questo fa ben piacere, pare. Questa è ovviamente la mia personale opinione di occidentale che non si è mai sentita discriminata per il fatto di essere una donna e men che meno si è mai sentita in una posizione subordinata rispetto agli uomini, cosa che invece qui nello Yemen pare essere una regola che nessuna, sfortunatamente, osa e può mettere in discussione. Usciamo tutte con i nostri abiti nuovi e quando pago scopro che il prezzo “di favore” dell’abaya comperata a Sana’a assieme al caro Abdul era stato gonfiato ad arte per far saltare fuori anche la sua percentuale, che evidentemente era cospicua. Questa cosa fa infuriare Ghanem che, al contrario, si è sempre rivelato una persona corretta e che evidentemente non sopporta i disonesti. Andiamo verso Tarim per vedere la sua splendida moschea (questa sì è veramente bianchissima) con un minareto alto 40 metri che la guida Loney Planet segnala come il più alto dello Yemen. Tarim è una città piuttosto vecchia e polverosa che non ha nulla di offrire se non tantissimi bambini che salutano dalle finestre, alcuni si ritraggono perché non vogliono essere fotografati, altri invece lo desiderano e si mettono in posa. Su una finestra al primo piano sono affacciate due belle bambine. Scatto loro una serie di fotografie mentre stanno ridendo e faccio loro segno di venir giù a vedere le foto che ho fatto loro. In un batter d’occhio arrivano con altri fratellini e sorelline ed è tutto un fotografare e una distribuzione di penne. Pure alcuni ragazzi in moto chiedono di essere immortalati tra le risatine dei ragazzi che stanno passando. Anche qui molte persone ci chiedono da dove veniamo e ci accolgono con un “welcome” da cui traspare tutta la gioia e l’orgoglio di appartenere ad una terra così interessante. Facciamo una tappa nella biblioteca del paese che contiene libri antichissimi e dato che è oramai l’ora di pranzo andiamo al nuovo ristorante Al Kajieem dove mangiamo, seduti a terra, pollo arrosto, pomodori, riso e cetrioli. Ci facciamo quattro risate pensando ad alcuni nostri colleghi di lavoro piuttosto schizzinosi e pieni di paranoie che probabilmente nello Yemen morirebbero di fame. Parliamo con Ghanem della situazione del turismo nello Yemen che a causa dei continui rapimenti ma, soprattutto, a causa di alcuni attentati terroristici dovuti al Al Quaeda, è crollato rispetto a 10 anni prima. Ghanem è chiaramente molto dispiaciuto di questo fatto anche perché la gente comune yemenita non ha assolutamente nulla da spartire con i terroristi talebani, eppure sono loro come al solito a pagarne pesantemente le conseguenze. Ghanem ci racconta che ovunque la popolazione è molto attenta a segnalare l’eventuale presenza sul territorio di uomini di Al Quaeda e che quelli che sono stati arrestati sono stati poi processati e giustiziati nel giro di pochi mesi. Dopo un bel the di fine pasto ripartiamo per Shibam, questa volta entriamo dalla porta principale e la visitiamo dall’interno. E’ una città piuttosto sporca e polverosa e nella stradine che si fanno largo tra condomini di diversi piani, si trovano cartacce, borse di plastica e soprattutto capre ed escrementi di capra… Questa città (dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1980) è sorta nel secondo secolo dopo Cristo. Ci sono in giro molti uomini intenti ad oziare e masticare qat, mentre donne in giro se ne vedono pochissime. In compenso ci sono molti bambini, alcuni piuttosto strafottenti ci chiedono subito dei soldi mentre altri si fanno simpaticamente fotografare. In particolare una bambina molto piccola dapprima si nasconde e poi, acquistata un po’ di confidenza si diverte molto a posare davanti a noi. La città vista dall’interno perde gran parte del suo fascino anche se si vedono dei fantastici portoni in legno intagliato e anche delle belle finestre. Subito al di fuori delle mura, dall’altra parte della strada, molti ragazzini giocano a calcio in un grandissimo cortile sabbioso mentre si vedono finalmente alcune donne che accompagnano i loro bambini a divertirsi. Il sole sta ormai per tramontare per cui Ghanem ci porta sulla collina che sovrasta il paese per fare delle belle fotografie. Un bambino ci segue e si avvicina a noi in continuazione. A me sembra innocuo, ma Ghanem che ha più esperienza di noi lo sgrida e cerca di allontanarlo in quanto, ci dice poi, lo vedeva un po’ troppo interessato alla mia borsa… Al ritorno verso il nostro hotel una bella luna piena dietro la montagna cattura la nostra attenzione e viene immortalata in un paio di fotografie. Il mattino dopo, per farci perdonare il ritardo del giorno prima, alle 8 precise siamo pronti per la partenza. La meta è Al Mukalla ed il viaggio sarà molto lungo. Prima di imboccare la strada che attraverso il Wadi Daw’an ci porterà a destinazione, Ghanem ci accompagna in un posto appena fuori Shibam dove avremo, dice lui, la possibilità di fotografare le donne che lavorano nei campi o che accudiscono le capre indossando il madhalla, e cioè quel famoso copricapo in paglia che ha le sembianze di un cappello da strega e che dà loro un aspetto un po’ inquietante sotto certi aspetti. Fotografarle non è mai molto facile in quanto molte di loro hanno l’abitudine di lanciare sassi addosso all’incauto che cerca di farlo o talvolta addosso all’auto. Ma Ghanem come al solito sa il fatto suo per cui ci porta in diversi posti in cui dalla strada con l’ausilio un teleobiettivo si possono fare delle belle fotografie senza urtare la loro suscettibilità. Facciamo diversi scatti a parecchie pastorelle per la gioia sua e soprattutto nostra. Ci mettiamo in marcia attraverso questo Wadi che è considerato la più bella diramazione del Wadi Hadramouth. Il Wadi Daw’an è una valle fertile e verdeggiante che si snoda tra un immenso e splendido canyon. A dare un aspetto ancora più bello al paesaggio ci pensa un cielo blu limpidissimo. Viaggiare con Ghanem è veramente uno spasso: a qualche ceck point alla domanda di rito che gli viene rivolta dai militari e cioè da dove veniamo, alcune volte risponde che siamo “Italian Taliban”. Per fortuna evidentemente anche i militari sono persone di spirito altrimenti non sarei qui a raccontarlo… Man mano che ci addentriamo nel Wadi Daw’an scorgiamo i bellissimi paesini con le case in fango adagiati lungo le pendici delle montagne. Le case sono color ocra o color pastello e ci fermiamo a fotografarne alcune particolarmente belle perché tutte decorate. Arriviamo al paese di Al Hajjarayn tristemente famoso per l’attentato di Al Qaeda che due anni fa falcidiò alcuni turisti. Il villaggio a colpo d’occhio sembra davvero delizioso. Ghanem ci porta in alto, a centro del paese e ci fa scendere in una piazza davanti ad un negozio in cui si può acquistare il miele. Un ragazzo ci invita ad entrare ma a nessun di noi piace il miele che pure nello Yemen è buonissimo per cui lo salutiamo e lui non è per nulla insistente. Salutiamo Ghanem che ci aspetterà più in basso. Il paese è un grazioso labirinto con tutta una serie di vicoletti ed è abbastanza sporco. Tre bambini ci fermano e dopo una breve trattativa si fanno fotografare ma in cambio di una penna per ciascuno. Non essendo la proposta particolarmente esosa accettiamo. Mentre cerchiamo la strada che scende incrociamo un ragazzo che in bicicletta sta portando una grossa fascina di rami. Si ferma sorridendoci e chiedendoci da dove veniamo con modi particolarmente simpatici. E’ felice di farsi fotografare e ci ringrazia mille volte dicendoci che siamo i benvenuti nel suo paese e ci indica la strada per scendere. Dopo un centinaio di metri mi accorgo però che un tizio con un’aria abbastanza losca ci sta seguendo a debita distanza. Ci fermiamo e lo vediamo in alto: è fermo e ci sta guardano per cui lo salutiamo per fargli notare che lo abbiamo visto. Ci fa un cenno con la testa ma continua a seguirci senza dire nulla. Quando stiamo ormai raggiungendo il luogo in cui Ghanem ci sta aspettando, un uomo anziano e bellissimo ci ferma. Ci chiede da dove siamo e dopo averci stretto la mano ci chiede una fotografia. E’ molto felice di vedersi nel monitor e ci ringraziamo reciprocamente con tanti sorrisi. Raggiungiamo Ghanem e dopo un po’ arriva anche il tipo che ci stava seguendo che tira dritto facendo finta di niente. Secondo Ghanem potrebbe trattarsi di qualcuno che ci ha seguiti per vigilare su di noi, ma a me i dubbi sono rimasti. Ci fermiamo fuori dal paese per fotografarlo da lontano. Ma la strada è ancora lunga. Raggiungiamo poi il paese di Al Kurayba dove c’è uno splendido palazzo che è uno dei simboli dello Yemen con le pareti esterne tutte a quadri di color pastello e che è stato recentemente trasformato in hotel. Si può entrare e così facciamo. Ci mostrano le stanze che sono molto particolari con dei soffitti decorati con colori accesi, porte massicce ed intagliate. Andiamo in terrazza a berci un the e parliamo con Ghanem della situazione delle donne nello Yemen. Lui è una persona di vedute molto aperte, ma il fatto è che solo il 3-4% degli uomini yemeniti la pensa come lui, ci conferma. Ci racconta che i matrimoni sono per lo più combinati e che il restante 97% della popolazione maschile considera le donne solo come serve e come compagne per la notte. Del resto, nella rivista “Yemen Today” trovata in un hotel, c’era chiaramente scritto che, da un’inchiesta, su 158 paesi del mondo lo Yemen era risultato all’ultimo posto per il gap esistente tra uomini e donne. Paghiamo i nostri the ed andiamo a fotografare un altro bellissimo palazzo dipinto con colori molto più accesi. Rimontiamo in auto e ci inerpichiamo per la montagna dove raggiungiamo un punto panoramico fantastico che domina tutto il paese. Saliamo fino a raggiungere la sommità dell’altura ed entriamo in un bel resort nuovissimo. Anche qui c’è un belvedere da cui si può ammirare un maestoso canyon. In mezzo a questo sorge una collina rocciosa ed impervia sulla sommità della quale è costruito un paesino pressoché inaccessibile che, ci dice Ghanem, è quello in cui è nata la stirpe dei Bin Laden. Quel posto è davvero inquietante e assolutamente inospitale, ha qualcosa di indefinito e di sinistro che mette i brividi. | ||
Risaliamo sul nostro fuoristrada e proseguiamo il nostro giro con l’accompagnamento musicale di Andrea Bocelli, dato che avevo portato dall’Italia diverse vecchie audiocassette da ascoltare in auto. Molto più avanti ci fermiamo nuovamente per godere di un altro belvedere. Ghanem va a cercare dei sassi molto particolari, fatti di due tipi di roccia diversa e ce li porta. Quando è ormai mezzogiorno ci fermiamo a mangiare il solito pollo alla griglia con contorno di verdure. Questa volta abbiamo un tavolino all’aperto e vediamo arrivare anche degli occidentali che evidentemente lavorano nei pozzi petroliferi che si trovano nella zona. Dopo un tragitto di altre due ore arriviamo ad Al Mukalla. La strada in alcuni punti è in condizioni veramente disastrose e molti tratti sono ancora in costruzione per cui ci sono continui cambiamenti di direzione e di corsia. Raggiungiamo il nostro hotel Al Mukalla Holiday Inn, bello ed elegante come tutti gli hotel di quella catena, ma con i locali freddissimi a causa dell’aria condizionata. Anche la nostra bellissima camera è gelida per cui spegniamo immediatamente l’aria. Dopo mezz’ora siamo già pronti per uscire in quanto Ghanem ci sta aspettando per portarci in auto al suq, dato che l’hotel è parecchio fuori rispetto al centro di Al Mukalla. Ci scodella nel centro della città e ci dà appuntamento un’ora e mezzo dopo davanti ad un rinomato ristorante di pesce per la cena. Non appena mettiamo piede al mercato ci sentiamo in una situazione piuttosto imbarazzante: abbiamo tutti gli occhi addosso. Sembra che tutti ci stiano osservando con curiosità anche se siamo vestiti in modo appropriato e non abbiamo apparentemente niente di strano. Giriamo per il suq dove ci sono anche moltissime donne, tutte velate, ovviamente. C’è una bambina bellissima che attira la mia attenzione, vorrei fotografarla e anche la mamma le dice qualcosa a riguardo e cerca di convincerla, ma non c’è verso, lei continua a girarsi e a guardarmi ma di lasciarsi fare una fotografia proprio non se ne parla. La mamma sembra più dispiaciuta di me, pazienza. Giriamo tra le bancarelle e ci fermiamo a parlare con parecchie persone. Per la verità qualcuno non vuole essere fotografato, ma la maggioranza della gente invece non solo ha piacere, ma ce lo chiede espressamente. Ci infiliamo in un vicoletto che sbuca in un cortile dove ci sono decine di bambini che stanno giocando. Ci salutano festosi in coro, agitando le mani. Gli adulti presenti ci chiedono da dove veniamo e si fermano a parlare un po’. Abbandoniamo questo gruppo festante e simpaticissimo a malincuore. Mentre siamo ormai sulla via del ritorno incrociamo tre ragazze che ci guardano con insistenza e che si girano verso di noi. Io provo a salutarle e loro mi rispondono in inglese per cui, dato che si dimostrano bendisposte ad interagire, ci fermiamo. Sono tre ragazze dell’Oman, sotto il velo si intuisce che sono giovani e anche belle. Sono simpatiche ed estroverse, parlano volentieri di un sacco di cose per cui ci tratteniamo a chiacchierare con loro per un buon quarto d’ora. Ci dicono che sono ad Al Mukalla per motivi di studio e che però non si trovano affatto bene in quanto sono trattate male dalla gente del posto perché sono dell’Oman. Ci rattrista molto sentire quelle cose perché sono talmente gentili e simpatiche che ci domandiamo come sia possibile avere un atteggiamento ostile nei loro confronti. Chiediamo loro di venire a cena con noi e Ghanem, ma ci dicono dispiaciute che non possono farlo perché, se i vicini le vedessero rientrare tardi dopo cena, sparlerebbero di loro e la loro reputazione sarebbe rovinata. Per la prima volta da quando sono nello Yemen mi sembra di trovarmi improvvisamente su un altro pianeta: come era possibile una cosa del genere? Oltretutto la nostra chiacchierata, che a me sembrava la cosa più naturale del mondo, evidentemente per la gente del posto non lo era affatto perché attorno a noi si era ormai radunata una piccola folla evidentemente incuriosita nel vedere che eravamo fermi a parlare con delle donne! Proviamo ad insistere per la cena, ma capiamo che per loro sarebbe solo causa di problemi e dispiaciuti ci congediamo da loro. Io le abbraccio e le bacio tutte tre mentre mio marito, purtroppo per lui, non può farlo. Raggiungiamo Ghanem che ci aspetta davanti al ristorante e gli raccontiamo della nostra simpatica esperienza con le tre ragazze dell’Oman e dell’invito a cena. Inutile dire che i due maschietti hanno cominciato a fantasticare ad occhi aperti sulle tre ragazze e questo è stato uno dei leit motiv anche dei giorni successivi. Io per consolarmi mi sono ordinata uno stupendo piatto di gamberoni alla griglia con verdure mentre loro si sono presi del pesce. Il tutto squisito e ad un ottimo prezzo. Per finire ci siamo bevuti un the seduti sulla panca al di fuori del locale, ed abbiamo potuto constatare che io ero la sola donna presente nel ristorante. Ghanem ci dice che con noi si sta divertendo molto e che è molto felice per il bellissimo rapporto che si è creato. Happyness! Il mattino successivo si parte alle 6! CI facciamo mettere la colazione in una scatola e puntualissimi raggiungiamo Ghanem che è già in strada. Si va al ceck point dove, dopo una breve discussione tra Ghanem che non vuole nessuna scorta ed i militari che vogliono farci seguire addirittura da una camionetta, si raggiunge un compromesso: un soldato sale in auto con noi ovviamente con l’inseparabile kalashnikov… Attraversiamo inizialmente un paesaggio impervio, tra montagne ricoperte di verde, per poi entrare in una zona desertica che costeggia il mare caratterizzata da dune di colore chiaro. E poi ancora zone di roccia lavica quasi nera che crea un grosso stacco dalle dune quasi bianche. Ghanem ci dice che l’ultima eruzione del vulcano si è verificata 500 anni prima. Ad un ennesimo posto di blocco ci viene cambiata la scorta e ci viene assegnata un’auto con 4 militari. Ghanem è furioso perché ad ogni ceck point si perde un sacco di tempo ad aspettare che la scorta sia pronta: un militare sta fumando e deve finire la sigaretta… un altro sta finendo di fare colazione… e intanto i minuti passano. Dopo un po’ di chilometri ci viene di nuovo assegnato un militare e avanti così per tutto il tragitto. Per far sentire importanti gli uomini che ci scortano, ogni volta che ne sale in auto uno nuovo Ghanem ci chiede a gran voce: “Feel you safe now?” e noi: “Yessssss, we feeeel” ed è davvero difficile trattenersi dallo sganasciarsi. Poco prima di raggiungere Aden ci sbarazziamo dell’ennesima scorta e ci fermiamo a mangiare. Che cosa? Ma pollo e verdura, cos’altro???? Raggiungiamo infine il nostro hotel, l’Aden Mercure, che si trova sul mare. Guardando dal poggiolo della stanza mi accorgo che c’è anche una megapiscina, ma mi chiedo chi la possa usare. Probabilmente solo gli uomini, immagino, a meno che in questi grandi hotel internazionali anche le donne abbiano la possibilità di mettersi in costume da bagno. Alle 18.30 ecco Ghanem. Ci porta ad Aden, nel centro, per fare un giro per il suq. Qui ad Aden i costumi sono più liberi, si fa per dire, tant’è che qualche donna, rara per la verità, gira a volto scoperto e solo i capelli sono chiusi in un foulard. Bisogna dire che le ragazze belle che abbiamo visto per strada ed al ristorante sono proprio veramente splendide, in Italia ragazze così non se ne vedono. Raggiungiamo il Reem, ristorante piuttosto rinomato, dove troviamo molte famiglie e vediamo diverse bellissime ragazze a viso scoperto. Mangiamo degli ottimi kebab e poi facciamo un altro giro per la città. Incontriamo un gruppo di bambine a cui piace, pare, il mio vestito ed il mio anello e che incuriosite mi vogliono toccare i capelli. Facciamo delle fotografie sia assieme a loro che ad una signora molto dolce e gentile. Torniamo in hotel che è mezzanotte e siamo ormai sfiniti dalla stanchezza. Il mattino dopo lasciamo l’hotel alle 8 e la prima tappa è alle famose cisterne di Aden. Era una struttura usata anticamente per convogliare e raccogliere l’acqua che scendeva dalla montagna. C’era anche un sistema di decantazione. Incontriamo una coppia molto simpatica: lei è un ingegnere e lui un architetto. Sono di Aden, ma vivono a Sana’a. Lei si chiama Hana e dopo aver chiacchierato allegramente un decina di minuti come se ci conoscessimo da sempre, ci scambiamo gli indirizzi. Ora lei è tra i miei amici su Facebook e ogni tanto ci sentiamo via e-mail. E’ una persona dolce e intelligente, è tra le donne fortunate che hanno potuto studiare ed acquistare così l’indipendenza. Ghanem sta scalpitando per ripartire per cui ci congediamo da Hana e da suo marito. Andiamo sul porto di Aden dove ci sarebbe la possibilità di prendere una barca e di fare un giro, ma la cosa ci sembra un po’ troppo turistica, infatti c’è già una comitiva di gente dell’est da cui decidiamo di stare ben alla larga. Ci fermiamo allora a bere un the ed io ne approfitto per visitare un negozietto e comperare una decina di francobolli per spedire le cartoline che prima o poi comprerò. Continuiamo il nostro viaggio verso Taizz: la strada si snoda in mezzo ad un deserto roccioso e non c’è molto da vedere. Anche le montagne sono totalmente brulle. Ci fermiamo ad Ibb per pranzare. Ormai il livello dei ristoranti scende giorno dopo giorno. Solito pollo con verdure e quel pane favoloso. Mentre stiamo pranzando avviene un fatto un po’ inquietante: si sentono una serie di colpi di arma da fuoco e si vedono delle persone correre dall’altro lato della strada. I colpi si ripetono (7 - 8 in tutto) e molta gente si ripara nei locali. Non si capisce assolutamente cosa stia succedendo ma, sia Ghanem che le persone presenti nel ristorante, cercano di minimizzare e di tranquillizzarci. Non abbiamo mai saputo cosa fosse successo veramente in quanto ci sono state varie versioni dei fatti, tra cui quella che un’auto non si sarebbe fermata ad un posto di blocco e che i militari avrebbero quindi sparato in aria alcuni colpi. Evitiamo accuratamente di girare per il centro e, finito di pranzare, ripartiamo. Ci fermiamo a Jibla. In alcuni racconti di viaggio trovati sul sito TpC avevo letto che in questo paese c’è una ragazza, Rima, che accoglie i turisti e gli accompagna a visitarlo. Pare che parli diverse lingue piuttosto bene, tra cui l’italiano. All’inizio del paese ci vengono incontro diversi ragazzini a cui chiediamo notizie di Rima, ma ci dicono che non c’è, è a Sana’a a studiare tedesco. In compenso arriva suo fratello Jussuf: ci accompagnerà lui. Anche lui parla italiano, ma non benissimo. Soddisfiamo un gruppetto di bambini che chiedono penne e fotografie ed iniziamo il nostro giro partendo dalla moschea che vediamo solo dal di fuori, ovviamente. Attraversiamo poi le strettissime stradine in cui si tiene il mercato del qat e continuiamo il giro di questo bel paesino. Un signore anziano ci invita ad entrare nella sua casa dal cui terrazzo panoramico si possono fare delle belle fotografie. Alla fine del giro, dopo decine di foto a case e bambini, ci congediamo da Jussuf dandogli una mancia e lasciandogli un sacchetto pieno di penne, temperamatite, pennarelli colorati e righelli da portare a scuola. Continuiamo verso Taizz. Ghanem ci propone di cambiare hotel, in teoria dovremmo alloggiare al bellissimo Sofitel che ha però l’inconveniente di trovarsi piuttosto fuori, lontano dalla città, mentre in centro, attaccato al suq ci sarebbe un hotel ugualmente carino. Andiamo a vederlo ed accettiamo il cambio. Il Sofitel sarebbe stato certamente più bello, ma la posizione in centro è veramente funzionale. Ghanem non sta molto bene per cui ci dice che non verrà a cena e ci diamo appuntamento direttamente per la mattina seguente. Dopo aver portato le valigie in camera usciamo per andare alla banca poco distante per cambiare altri dollari e poi andiamo al suq. C’è un sacco di pesce essiccato che emana un odore piuttosto acre e sgradevole, e poi spezie di ogni tipo, gioielli in argento, frutta. Comperiamo solo 2 casette tipiche in gesso che, dopo una breve trattativa, riesco ad acquistare alla metà del prezzo iniziale. Ormai è tardi per cui andiamo a mangiare da Hot Hut, economicissimo. Di hamburger, coca cola e supercoppa di gelato con panna spendiamo 1000 in due. Al mattino facciamo velocemente un’ottima colazione ed usciamo presto per riuscire a fare un altro giro al suq, prima che arrivi Ghanem. Le bancarelle sono sempre quelle ma la gente, evidentemente meno stanca, è molto più socievole della sera prima. Scopriamo che tutti ormai sanno che siamo Italiani, evidentemente quelli con cui abbiamo parlato il giorno prima lo hanno raccontato in giro. Un sacco di persone ci chiedono una fotografia, ma dopo un po’ purtroppo dobbiamo scappare via perché abbiamo appuntamento con Ghanem che ritroviamo completamente ristabilito, per fortuna. Ghanem ci porta in cima ad una montagna dalla quale si gode un bellissimo panorama e sulla cui sommità c’è una base militare. Sulla via del ritorno siamo inseguiti da tre bambini che rincorrono la nostra auto per venderci dei mazzetti di fiori. Fanno davvero tenerezza e la loro tenacia viene infine premiata perché ci fermiamo, comperiamo i fiori, diamo loro un po’ di penne e facciamo le fotografie di rito. Ci avviamo verso Zabid, la strada è piuttosto lunga, più di 150 km in mezzo a montagne desertiche. Attraversiamo diversi paesini in cui ci sono mercati di qat e di frutta. | ||
Raggiunta finalmente la nostra meta, andiamo a pranzo al Zabid Tourist Guesthouse che ha un bel ristorante. Ordiniamo kebab e nel frattempo arriva anche una comitiva di Thailandesi. Appena mangiato, andiamo a visitare Zabid e come guida abbiamo un tipo che mi risulta subito notevolmente antipatico, dato che si rivolge solo ed esclusivamente a mio marito, come se io non esistessi. La città di Zabid è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’Umanità dal 1993, ma a quanto pare l’Unesco non dà assolutamente nessuna sovvenzione per poterla restaurare e conservare intatta, a quanto racconta l’odioso tipo, solo la Germania dà dei generosi contributi che permettono alla città di mantenere i suoi vecchi palazzi restaurati. Da quello che dice la Lonely Planet, Zabid vanta lo sgradevole primato di essere la città più calda della terra, dato che d’estate la temperatura si aggira sui 45 gradi, ma evidentemente chi ha scritto quella cosa non è mai stato a Dubai in Agosto… Giriamo per il suq che è piuttosto piccolo e dato che la guida continua ad ignorarmi, la lascio andare avanti con mio marito, mentre io mi diletto a fotografare tantissimi bambini che ovunque chiedono la “sura” e si mettono in posa volentieri. Nella cittadina ci sono diversi begli edifici con intarsi e moltissime moschee (una ogni 10 abitanti, pare). A Zabid c’è anche la casa dove il regista Pier Paolo Pasolini visse alcuni anni e dove furono girate anche diverse scene del film “Il fiore delle mille e una notte”. Andiamo a vistarla, entriamo e ci viene offerto subito del the. L’interno è in stile arabeggiante con il soffitto completamente decorato, tanti cuscini, finestre con vetri colorati. Mentre stiamo sorseggiando il nostro the arriva anche la comitiva di Tailandesi. Si avvicina una signora di origini inglesi che si ferma a parlare con noi. Ci racconta che ora è in pensione, ma che faceva la rappresentante di pietre preziose e che ha girato il mondo per lavoro. Ci dice che con la sua comitiva si è fermata un solo giorno a Sana’a e poi ha preso l’aereo per Seyun e da lì nuovamente un volo per Al Mukalla. Siamo molto stupiti che non abbiano attraversato né il deserto né l’Hadramouth perché sono le parti più belle di tutto lo Yemen, ma lei ci dice che a loro il tour operator aveva comunicato che la zona del Marib era ancora chiusa. E’ molto stupita infatti di sentire che noi invece abbiamo attraversato il deserto da Marib a Seyun. Evidentemente esistono dei tour operator senza scrupoli che, pur di fare acquistare alle persone più biglietti aerei, dai quali evidentemente hanno un guadagno maggiore, non raccontano la verità. Anche Ghanem ci confermerà poi questa cosa, tant’è che siamo venuti poi a sapere che la perfida guida di quel gruppo tailandese aveva raccomandato a Ghanem di non dire a loro che il deserto era stato riaperto. Peccato che, senza farlo apposta, ci avessimo già pensato noi ad avvisarli… Finito il giro di Zabid ritorniamo da Ghanem e chiediamo all’odiosa guida quanto è la sua tariffa. Ci dice di fare noi, salvo poi lamentarsi e chiederci esattamente il doppio. No comment! Dopo aver percorso un bel po’ di strada, in prossimità di Al Hudaidah ci fermiamo a fianco della strada, in una zona desertica con splendide dune di sabbia dorata. Ghanem ci invita a scendere dall’auto e noi lo seguiamo mentre si addentra in quello scenario stupendo, in mezzo ad un deserto silenzioso e spettacolare. Ci togliamo le scarpe e corriamo in quel nulla. Che sensazione indescrivibile! Ci rendiamo conto di aver lasciato in auto, in bella vista, le nostre borse e lo diciamo a Ghanem. Lui sorride e ci dice di stare tranquilli: nello Yemen nessuno ci ruberà niente. Ed il fatto che qui ci si possa fidare del prossimo, che è una cosa tanto strana per noi che veniamo dall’Italia, ci dà un senso di libertà difficile da descrivere. Raggiunta Al Hudaidah alloggiamo nel più brutto hotel di tutto il nostro tour. Ghanem, ci dà persino la possibilità di scegliere tra due diversi alberghi di cui visioniamo le stanze, ma i due migliori hotel della zona sono uno peggio dell’altro. Li spacciano per 4 stelle ma da noi in Italia ne avrebbero avute a malapena 2. La stanza del meno peggio dei due è parecchio squallida ed inoltre secondo noi le lenzuola non sono nemmeno pulite. Scendiamo quindi alla reception e ne pretendiamo immediatamente la sostituzione, il che avviene fortunatamente dopo pochi minuti e senza problemi da parte loro. Ceniamo in un ristorante sul mare, e mangiamo dei buonissimi gamberi con l’immancabile verdura ed il pane. La giornata successiva parte male: il cielo è semigrigio a causa, ci dice Ghanem, di una tempesta di sabbia che, partita da Dubai, ha ormai raggiunto anche lo Yemen. Anche l’aeroporto di Sana’a è chiuso per questo motivo. Ci rechiamo a mercato del pesce, sul porto, ovviamente. Stanno scaricando tutto il pescato da decine di navi che hanno appena attraccato ed il ritmo è frenetico. La barche sono coloratissime ed ovunque vengono sbarcate enormi ceste di pesce di ogni tipo. La confusione è enorme ed è difficile farsi strada tra la folla all’interno del mercato. C’è una zona riservata alle grandi prede ed andiamo a vederla. Ci sono razze, squali tigre, bianchi, martello, ma vedere questi enormi animali distesi a terra senza vita mi mette una certa tristezza e non mi viene nemmeno voglia di fotografarli. E’ certamente vero che la vita di un pesce piccolo ha lo stesso valore di quella di uno grande, ma i corpi di quegli squali, molti dei quali senza pinne (vengono tagliate e vendute subito in quanto si ritiene che abbiamo un grosso potere afrodisiaco per cui vanno a ruba) mi fanno pena ed impressione al tempo stesso. Ad uno di loro vengono estratti alcuni cuccioli dalla pancia e quest’ultima scena macabra mi convince definitivamente ad allontanarmi. Partiamo per Manakhah, il paesaggio montagnoso è molto brullo ed in più c’è questo cielo orribile e una foschia che non permette di fare fotografie belle in quanto i colori sono smorti. Ovunque ci sono piantagioni di manghi. Ci fermiamo a comperarne alcuni, anzi li compera Ghanem e ce li regala. Arriviamo a Manakhah ed andiamo in un ristorante a bere un the, Ghanem ci dice che è qui che torneremo per pranzare. Raggiungiamo Al Hajjarah. Come già sapevamo dalla guida Lonely Planet, in questa cittadina il visitatore non ha tregua perché viene perseguitato dai tanti venditori. In realtà io compero solo delle cartoline in quanto belle e ad un prezzo conveniente, ma non mi lascio convincere a comperare altro. Ghanem ci accompagna nel nostro giro del paese e questo ci mette al riparo da tante seccature in quanto, quando vede che i venditori sono troppo insistenti, è lui per primo a dire loro di smetterla. Veniamo avvicinati da una bambina tanto bella quanto incalzante che non accetta i soldi che le offro per un braccialetto in simil argento con pietre, per cui ce ne torniamo indietro con solo le cartoline. Per fortuna veniamo salvati da una bella e nutrita comitiva di persone che catalizzano l’attenzione di tutti, noi veniamo graziati e possiamo concludere il nostro giro in libertà. Ghanem dice di detestare questo paese e che ne esiste un altro, Thula, in cui la situazione è addirittura peggiore. Ritorniamo a pranzo nel ristorante in cui avevamo bevuto il the e… sorpresa, dopo un po’ ritroviamo anche la comitiva di simpatici Thailandesi. Mangiamo cose varie e buone. Subito dopo c’è una esibizione degli uomini del posto che suonano e ballano per noi la danza delle spade, coinvolgendoci simpaticamente. Nel primo pomeriggio ripartiamo: la strada è ancora lunga perché dobbiamo raggiungere Sana’a. Arriviamo alle 5 del pomeriggio e ritorniamo al Burj al Salam. Ci rimettiamo un po’ in sesto perché alle 7 di sera Ghanem passerà a prenderci per andare a mangiare. Ci porta in un posticino molto economico a mangiare kebab, nella zona dove ci sono le varie ambasciate. La moschea illuminata è molto suggestiva, peccato che ci sia sempre questa foschia dovuta alla tempesta di sabbia. Ghanem ci racconta che quella moschea è costata la bellezza di 65 milioni di Dollari, una cifra folle, secondo lui ma anche secondo noi, se paragonata a tutte le cose molto più utili che si potevano fare con quei soldi. Come dargli torto? Ci congediamo da Ghanem dandoci appuntamento per le 8.30 del giorno successivo, sperando che nel frattempo la situazione si normalizzi e l’aeroporto venga riaperto. La giornata è nuovamente piena di foschia, ma se non altro veniamo a sapere che è stato riaperto l’aeroporto anche se a dire il vero non ci sarebbe dispiaciuto prolungare la nostra permanenza a Sana’a di qualche giorno. La nostra prima tappa è Wadi Dhar dove andremo a vistare il famoso palazzo Dar Al Hajar costruito per essere la lussuosa resistenza estiva di un Imam. Questo splendido palazzo è situato in posizione superba sulla sommità di una guglia rocciosa ed è piuttosto famoso, dato che è diventato anch’esso uno dei simboli dello Yemen. Visto dal di fuori è veramente fantastico e il complesso roccia-palazzo si staglia nel cielo che, per fortuna, in questa zona è blu e non rosato a causa della tempesta di sabbia. Dopo averlo fotografato dall’esterno ed aver scherzato con un ragazzo amico di Ghanem che, ci dice, vorrebbe trasferirsi in Europa e sposare una donna europea (e che, quasi sicuramente, dopo avermi conosciuta ed aver parlato con me avrà cambiato idea) entriamo nel palazzo assieme a Ghanem. Ci sono splendide stanze bianchissime piene di stucchi che assomigliano a meravigliosi merletti e con molte vetrate colorate, ognuna diversa dall’altra, tutte veramente stupende. Ghanem ci mostra anche una serie di pozzi piuttosto inquietanti dato che non se ne vede il fondo. Si avvicina una ragazza completamente velata che parlotta con Ghanem il quale ci dice che è la guida del palazzo e ci affida a lei. E’ molto carina e ci dà le spiegazioni in inglese, ma scopriamo che ha praticamente imparato tutto a memoria perché quando le poniamo delle domande non capisce cosa le diciamo. Finito il giro le diamo comunque una bella mancia. E’ molto sorpresa e contenta e ci dice che possiamo fare delle fotografie assieme a lei. E’ davvero dolce e tenera quando ci congediamo mi abbraccia e mi bacia. Raggiungiamo nuovamente Ghanem che ci porta verso Hababah, paesino sperduto e famoso per una cisterna ovale sempre piena d’acqua nella quale si rispecchiano le splendide case poste a semicerchio attorno ad essa. In effetti la sua fama è meritata in quanto l’immagine che ne risulta è a dir poco spettacolare. Raggiunto il paese subiamo l’assalto peraltro molto simpatico ed affettuoso di uno stuolo di bambini che ci chiedono la foto. Alcuni continuano a seguirci per avere altre fotografie e certi cercano sempre di mettersi in primo piano di fronte all’obiettivo. Dopo aver accontentato i numerosi bambini ed avere fatto tutta una serie di fotografie alla cisterna con le magnifiche case, ripartiamo alla volta di Thula. Ma dopo pochi chilometri Ghanem ci propone di modificare il nostro itinerario. Thula è un paese che a lui non piace per niente in quanto è ben noto per l’invadenza della gente assolutamente insopportabile che cerca di venderti di tutto e non ti dà un attimo di tregua. Decidiamo allora di affidarci ancora una volta a lui che decide di portarci su uno splendido altipiano in capo al mondo, a 3100 metri di altitudine. Il posto è indescrivibile come è indescrivibile il paesaggio spettacolare che si gode. Incredibile ma vero, ci sono due persone che ci chiedono delle fotografie anche lì e sono molto incuriosite da noi. Dopo esserci goduti quel momento magico ripartiamo perché la fame comincia a farsi sentire. Mangiamo pollo, verdura e uno stufato, per fare una piccola variazione sul tema. Con la pancia piena si sta decisamente meglio. Ghanem ci porta poi a Kawkaban e cerca poi di convincermi a fare un percorso a piedi in discesa fino alla città di Shibam (da non confondere con l’altra località omonima che si trova però in tutt’altro posto), senza ottenere alcun risultato. Cedo alle sue pressioni solo quando dimezza il percorso promettendo che verrà a prenderci a metà strada. Senza nessun entusiasmo scendo la montagna lungo il sentiero (piuttosto comodo a dire il vero) che porta verso Shibam. Quando raggiungiamo Ghanem sono molto felice, più che altro perché camminare in montagna con l’abaya è come farlo in abito da sera e quindi non è proprio comodissimo. Torniamo verso Sana’a, la strada è piuttosto noiosa perché è tutta in pianura. Ma la giornata non è affatto finita. Ghanem ci lascia alla porta di ingresso della città vecchia. Entriamo nel suq e si ripetono le scene già viste della gente che ci chiede la fotografia e che si ferma a parlare con noi. Compero il burqa per strada, da un ragazzo. Dopo una brevissima trattativa lo ottengo alla metà del prezzo iniziale. Lo provo tra l’ilarità generale e devo dire che mi viene la tentazione di tenerlo addosso dato che, stranamente, mi dà la piacevolissima sensazione di essere diventata invisibile. Dopo esserci persi svariate volte ed aver chiesto indicazioni un po’ a tutti, raggiungiamo finalmente il nostro hotel dove abbiamo appuntamento con Ghanem per la nostra ultima cena assieme. | ||
Incontriamo nuovamente Sara, la ragazza del tour operator, con la quale ci fermiamo a scambiare due chiacchiere. Accade una cosa veramente simpatica ed inattesa. Al suo telefonino è appesa una piccola papera di pelouches. La noto e le dico che è davvero carina. Sara in un attimo mi guarda e mi dice: “I give you it” e la toglie immediatamente dal suo cellulare senza darmi nemmeno il tempo di dire nulla. Siccome mi spiace approfittarne, ma mi rendo conto che il suo gesto è talmente carino e spontaneo che se le dicessi di non farlo si potrebbe offendere, allora decido per uno scambio e io le regalo la mia ciabattina hawaiana (comperata a Maui) che è attaccata al mio cellulare. Dopo aver salutato ed abbracciato Sara usciamo con Ghanem che nel frattempo è arrivato. Questa sera, ci dice, andremo a mangiare in un locale frequentato dalla gente locale, con tavoli all’aperto. Non appena arriviamo attiriamo l’attenzione delle persone sedute nei tavoli a fianco che ci salutano calorosamente, ci dicono che siamo i benvenuti e cominciano ad elencarci le varie squadre di calcio Italiane: Milan, Juve, Inter… Prendiamo dello stufato e del pane che come al solito è eccezionale. Prima di andarcene parliamo di nuovo con i signori del tavolo a fianco, ci chiedono se facciamo loro una fotografia e poi, a turno si fanno riprendere assieme a noi da uno di loro che ha il telefonino. Sono veramente simpaticissimi e ci rendiamo conto che tutto questo calore umano ci mancherà molto non appena arriveremo in Italia. Nel tornare in hotel, Ghanem ci racconta come nel paese praticamente non ci sia microcriminalità e ce ne spiega il motivo. Poco tempo prima imperversava una banda che rubava belle auto e poi ne faceva pezzi di ricambio da vendere al mercato nero. Dopo alcuni mesi di indagini la banda è stata arrestata e a tutti sono state tagliate le mani con una “cerimonia” pubblica in piazza. Se anche in Italia questa fosse la pena per i ladri, quante persone sarebbero ora senza mani??? Raggiunto l’hotel, dato che è ancora presto per andare in aeroporto, ci fermiamo a parlare con Ghanem. Noi lo ringraziamo sinceramente per tutto quello che ha fatto per noi, per come ci ha fatti sentire in un certo senso protetti dalla sua esperienza e per l’amicizia che ci ha regalato. Anche lui ci dice di essere stato molto bene con noi e di essersi sentito come in famiglia, non al lavoro. Gli diamo una bella mancia, consci del fatto che però quello che ha fatto per noi è davvero impagabile. E’ il momento di raggiungere l’aeroporto e quando ci congediamo tra baci ed abbracci siamo tutti commossi. Un ultimo saluto da lontano ed un’ultima occhiata a questo paese tanto bello quanto sfortunato che ci ha dato tante splendide emozioni e che spero davvero di rivedere in un futuro non troppo lontano. Inshallah. Only few words for you, Ghanem, to thank you again for all you have done for us: thank you for your kindness, thank you for your important friendship, thank you for your skill because we never felt unsafe. Thank you, because we could see Yemen through your eyes and fall in love with your country. Thank you, because our friendship is the evidence that there is no difference at all between a Muslim and a Christian. Grazie ad Andrea per il costante interessamento dell’Ambasciata Italiana che ci ha fatto sentire protetti, a Monica per tutti i preziosi consigli e a Claudio, per il suo bellissimo e utilissimo racconto su TpC e per le eccellenti informazioni. | ||
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